E’ un film in bianco e nero, a firma Andrea del Sarto. La storia senza tempo del giovane infiammato di ideali, deciso a seguirli, vittima di un complotto che gli costa la vita. Proiettato sulle pareti del Chiostro dello Scalzo – e destinato a parlare a generazioni di fiorentini analfabeti – è il racconto di nascita, vita e morte di S. Giovanni Battista. Dodici scene scandite da 4 ritratti di donne, Fede e Speranza, Carità e Giustizia. Una narrazione così intensa, bagnata di luce naturale, che ancor oggi ammalia. Grazie ai disegni a matita, umili al punto da rifiutare il colore, il minuscolo cortile attraversa intatto cinque secoli. Serviva da accesso alla chiesa della Confraternita dei Disciplinati: la chiesa non c’è più, il portico sì. Son quei morbidi disegni in chiaroscuro a difendere lo scrigno che li raccoglie. Pittore eccellentissimo, quest’Andrea ‘senza errori’, figlio di Agnolo il sarto. Con un unico problema, almeno secondo il Vasari: troppo modesto nelle ambizioni, a causa di una donna.
E’ il 1509 quando la Confraternita dei Disciplinati di San Giovanni affida al volontario – nonché giovane promessa della pittura fiorentina – l’incarico di affrescare le pareti del nuovo chiostro. Una narrazione ritratta contromano, 12 quadri (e 4 ritratti) da leggere in senso antiorario. Perché? “Forse perché controcorrente è il lavoro della Confraternita, che si occupa degli ultimi fra gli ultimi, gli appestati, i condannati a morte – spiega Paola, custode-vestale del prezioso cortile – Per farlo i confratelli devono negare il proprio volto, indossare il cappuccio”. Per farlo talvolta si fustigano col cilicio, o camminano a piedi nudi. Sono scalzi, e da qui il nome del Chiostro. Non hanno soldi da investire in pitture, chiedono dunque ad Andrea – uno di loro, e artista alle prime armi – un lavoro semplice, in chiaroscuro. Sarà lui a raccontare sotto il portico dei Disciplinati la storia di Giovanni, figlio di genitori troppo anziani, che se ne va nel deserto a forgiarsi l’anima, per poi tornare ad annunciare l’avvento del regno messianico e finire con la testa nel piatto teso da Salomè all’incredulo Erode. Questa la storia stesa sui muri del Chiostro. Ma Andrea del Sarto non la esegue così, non segue la narrazione cronologica. Il suo è un montaggio digitale; uno slalom a singhiozzi nella storia.
Quando comincia a dipingere, l’artista non inizia dalla prima scena, cioè l’annuncio a Zaccaria dell’inattesa paternità, bensì dalla vera nascita cristiana, quella a nuova vita: il battesimo di Cristo da parte di Giovanni, scena numero 6 nel piano dei lavori. E’ il 1509. Da quel momento il giovane pittore prosegue quasi a tempo perso – indaffarato com’è col Chiostro dei Voti alla SS. Annunziata – risalendo verso il violento epilogo della vita del predicatore, con figure più dinamiche, pastose. Il colpo di scena arriva nel 1517: approdato alla concitata cattura del Battista da parte dei soldati romani, un Del Sarto ormai pittore affermato, molla tutto per trasferirsi in Francia, coperto d’oro da quel talent-scout che è re Francesco I. Che fare con il Chiostro? I lavori passano allo spigoloso Franciabigio, che non se la sente di mettere mano ai quadri più importanti e cerca rifugio nell’infanzia di Giovannino ancora tutta da dipingere, dedicandosi a due scene ‘minori’. Certo, la mano non è la stessa e si vede. Ma chi scommette che sarà Franciabigio a finire il film, si sbaglia: dopo due anni di assenza, Del Sarto ritorna e reclama il lavoro. Una scelta controcorrente, anche questa. Fatta per amore.
E’ la bella moglie, modella di tutte le opere – Lucrezia Del Fede – a farlo tornare. Per lei, Andrea lascia la grande occasione della vita, sacrifica il successo personale. Decisione inconcepibile per uno come Vasari, che infatti stigmatizza il pittore : “ Trascurò sé e i suoi prossimi per lo appetito di una donna che lo tenne sempre povero e basso”. “Eppure in un mondo in cui le donne avevano pochissimi diritti – spiega Beniamino Peruzzi, laureando in Scienze Umane allo IUSS di Pavia – Del Sarto nomina Lucrezia erede universale, in memoria ‘della carità e dell’amore’. E’ un rapporto così forte fra loro che, quando fa testamento, lui le lascia la dote e un anello nel caso lei si voglia risposare dopo la sua morte. Cosa impensabile per l’epoca”. Dunque Andrea torna da Lucrezia: abbandona la corte di Francia e si rimette al lavoro nello Scalzo ‘per quattro morti di fame’. E’ il 1523: tempo di affrontare l’inevitabile martirio di Giovanni, la fine del ciclo pittorico. Ma non della Speranza. Con questa Virtù ritratta accanto alla testa recisa, i Disciplinati sembrano dire al mondo: la storia finisce così, ma noi vi diciamo invece che il finale è un altro, non c’è motivo di disperare. Per questo messaggio di fiducia Del Sarto si affida alle fattezze della figlia, prendendola come modella; accanto a lei – al di là della porta – ritrae la Fede con le sembianze di Lucrezia. Ed è così che da allora in poi il ciclo sarà letto, con la Speranza-figlia a chiudere, e la Fede-moglie ad aprire il racconto: perché senza la Fede questa diventa una storia qualsiasi. E non lo è. Adesso il pittore-senza-errore deve narrare un inizio, inventarsi quella Visitazione in cui il grembo fertile di una Maria distrutta dalla peste (morbo che ha attaccato Firenze proprio in quell’anno) sfiora il ventre maturo della cugina Elisabetta. Le due donne si abbracciano, i bimbi nasceranno a soli sei mesi di distanza. Siamo arrivati al 1526 e una fine controcorrente è sicuramente quella che termina dal principio. Nell’ultima scena dipinta, Andrea affida la nascita di Giovanni al calore di una elegante camera da letto fiorentina. Zaccaria seduto, scrive il nome del bambino, ma è la servetta sulla porta ad attirare lo sguardo: sorride, curiosa, ancora incredula per quanto ha visto accadere, una donna così anziana mettere al mondo un bimbo. In quel sorriso malizioso c’è l’ultimo colpo di pennello di un artista beffardo col potere, modesto nelle ambizioni. Vissuto contromano come il suo film più bello, quello in bianco e nero. Montato al contrario.