La cosa peggiore? Svegliarsi una mattina e trovare la stanza vuota e un biglietto sul tavolo: “Non avevo il coraggio di salutarvi: scusate”. Ci sono quelle che se ne vanno dopo la prima notte in famiglia – e dopo mesi di ricerche e preparativi – perché “non ho la connessione wifi in camera da letto, mi dispiace”. Poi c’è chi sbatte la porta e addio: ma solo perché è stufa di fare la colf (sottopagata) per 10 ore al giorno.
Ragazze alla pari, l’incrocio fra tate, domestiche e sorelle maggiori di cui molte famiglie non possono più fare a meno. Un mondo in crescita esponenziale: quest’anno l’ANIAP (Associazione Nazionale Italiana Au Pair) ha registrato un aumento di partenze di giovani italiane verso l’estero del 140%. Un mondo in continua ebollizione: a migliaia i genitori si riversano sul web in cerca della fatina che tenga per mano i figli nella corsa quotidiana. Solo nel 2013 sono passate sul sito leader Au Pair World 75.600 famiglie e 299.680 ragazze. Con la fame di lavoro di cui è preda la popolazione giovanile, e il bisogno di aiuto che attanaglia i focolai domestici, quello delle au-pair è diventato un florido scambio in continua espansione, dove l’esperienza culturale si intreccia inesorabilmente al mercato del lavoro; globale sì, ma anche nero. Tutto questo mentre l’odierna società ‘liquida’ sembra sciogliere i comportamenti individuali dal rispetto di vincoli, di responsabilità. Il risultato è il caos. Liquido.
30.000 ricerche al mese su Google – Cominciamo dal nome: già le 30.000 ricerche mensili su Google della parola ‘o pair’ (trascrizione fonetica di au pair) raccontano l’ignoranza in materia. Il termine nasce nel 19° secolo in Francia, dove ragazze inglesi di buona famiglia sbarcano in cerca di conoscenze linguistiche e maniere ‘alla parigina’. Negli anni ‘70 gli scambi ‘au pair’ – alla pari – vengono sistematizzati, basandosi su un’idea lanciata dall’Unione Europea: io ti ospito, tu mi dai una mano. In pratica se oggi hai fra i 18 e i 26/30 anni (a seconda dei paesi) e vuoi imparare una lingua, una famiglia che abbia una stanza in più può accoglierti ‘alla pari’, offrendo vitto, alloggio e una paghetta, in cambio di aiuto con i bambini e una mano nei piccoli lavori domestici. I vantaggi per le parti sono innegabili. Ma se dall’idea – bellissima – si scende sulla terra del menage familiare, cominciano i problemi: quante ore di aiuto e per quale paghetta? E se non c’è la stanza in più? Insomma, quali i diritti? Quali le responsabilità?
Come funziona negli USA- Come sempre, gli americani vanno dritti al sodo. Con una legge del dipartimento di stato vincolante a livello nazionale. “Noi ci occupiamo solo di spedire ragazze negli USA, non di trovare aiuto per le famiglie italiane – spiega Elena Necchi del colosso Cultural Care Au Pair , con sede a Boston – il nostro mercato è quello statunitense perché lì il programma è molto strutturato, c’è una legislazione governativa valida per tutti”. Negli USA dunque niente margini di discrezionalità: c’è un visto specifico ottenibile solo tramite agenzia, il contratto dura 12 mesi, il monte orario è di 45 ore settimanali per 800 $ mensili di paghetta. La famiglia si fa carico anche dei 500 $ per l’iscrizione ad un corso di lingua. Ma se una ragazza rompe il contratto e torna prima, deve pagarsi il volo di rientro. In quante sono partite nel 2015? L’agenzia non rivela i dati: “E’ comunque un continuo aumento”. Costo del servizio: 620 EUR (esclusa l’assicurazione obbligatoria, dello stesso importo). Un fatturato in crescita al punto che da tre anni Cultural Care Au Pair ha aperto uffici operativi anche a Milano e Roma.
Europei ognun per sé- In Europa invece, tutti in ordine sparso. Il programma è regolato dal “Trattato per l’impiego alla pari” – firmato a Strasburgo nel 1969 – ma i singoli paesi sono lasciati liberi di gestire la faccenda in modo autonomo. Come sempre, alcuni si danno da fare, altri no: per esempio Germania e Francia, Austria e Belgio si sono dotati di una legge ad hoc, imponendo un contratto e regole specifiche. In Italia niente: non esiste un contratto ufficiale per il collocamento alla pari, nessuna autorità che se ne occupi. Nessun visto ‘dedicato’. “Abbiamo una legge che fornisce linee guida sui compiti reciproci, ma lascia molto spazio all’interpretazione” spiega Marina Filippi di Au Pair Education (APE) di Torino, agenzia che da 4 anni si occupa di collocare ragazze in Gran Bretagna, Irlanda e Francia, ma non di aiutare le famiglie italiane a trovare qualcuno. Il compito senz’altro più difficile, perché i veri problemi cominciano solo quando si è sul posto.
Esperienza culturale o lavoro? – Se i governi vanno in ordine sparso, molte agenzie si sono riunite nell’International Aupair Association (IAA) con l’obiettivo di darsi regole comuni. “Operiamo perché ci siano degli standard minimi rispettati da tutti – spiega la referente nazionale per l’Italia, Gaia Leonardi – Secondo noi 45 ore di lavoro sono troppe, non lasciano spazio alle ragazze. Deve essere un’esperienza culturale, non lavorativa!”. Ecco perché in Europa gli standard delle agenzie associate alla IAA si collocano a 30 ore settimanali (più 2 baby sitting serali), con una paghetta di 320 EUR mensili. Costo del servizio: sui 400 EUR per le ragazze, 600 per le famiglie. In Italia queste agenzie sono 6 (riunite sotto l’ANIAP), collocano sia italiane all’estero che straniere in Italia, e quest’anno stanno registrando un aumento di traffico in uscita del 140%. “Nel 2015 abbiamo sistemato all’estero circa 500 au pair italiane – spiega Leonardi – quest’anno siamo già a 1.200. Un boom di partenze senza precedenti”. Il collocamento au pair dunque come ennesimo canale del salasso giovanile subito dal Bel Paese. Ma se si passa al traffico in entrata, arriva la sorpresa: “Nel 2016 siamo rimasti a quota mille, come l’anno scorso. E non certo perché non ci sia un aumento di domande: le famiglie implorano aiuto. Ma non riceviamo abbastanza candidature dall’estero”.
La caccia sul web – L’Italia non attira (neppure) le ragazze alla pari. “Dopo i paesi anglofoni – continua Leonardi – i nostri concorrenti più forti sono Spagna e Francia, che attraggono più di noi, forse per una questione di lingua”. Ed eccoci al cuore della questione: se molte agenzie non trattano gli arrivi dall’estero – perché poi se ne devono occupare – e se quelle che lo fanno non ricevono sufficienti candidature, cosa resta da fare alle famiglie italiane sempre più sole? Attaccarsi al web.
AuPairWorld è l’agenzia online numero uno al mondo. Sul sito domanda e offerta si incontrano senza passare attraverso intermediari: niente agenzie, costi ridotti al minimo. Una giungla di profili pronti ad offrirsi al miglior offerente. Una sterminata piazza virtuale depositaria delle (presunte) virtù delle due parti. Per iscriversi le au pair non pagano niente; e con 40 EUR mensili i nuclei familiari hanno a disposizione il più grande e variegato bacino di gioventù mai radunato sotto uno stesso URL. Dal 1999 – anno di nascita – 2 milioni di persone si sono registrate su AuPairWorld: e anche se non esistono statistiche delle partenze, si sa che solo nel 2013 sono passate sul sito 75.600 famiglie e 299.680 ragazze. Un esercito di persone, perché le agenzie on line sono moltissime. Scovare la persona o la famiglia giusta non è facile: quando succede – e le cose funzionano – si creano legami destinati a durare nel tempo. Perché non si tratta solo di imparare una lingua: l’investimento è prima di tutto emotivo, c’è di mezzo il supporto reciproco, l’attaccamento dei figli. La cura dei giorni. Se le cose funzionano, la famiglia si allarga davvero. Trattandosi di web, tuttavia, le sorprese non mancano. “Proprio stamattina mi ha chiamato una ragazza disperata – racconta Gaia Leonardi – voleva partire per gli USA, una famiglia su un sito le ha chiesto 1.400 EUR. Solo dopo la seconda richiesta di altri 1.200 EUR, la ragazza ha capito che c’era qualcosa che non andava…”.
I guai per le ragazze- Nonostante i processi di controllo automatici, i sigilli di sicurezza, le verifiche sui profili fatte dagli stessi siti, i truffatori in rete sono sempre in agguato. Ma il rischio più comune per le ragazze non è l’aggancio degli scammers, bensì l’incontro con la famiglia insaziabile, non preparata da un colloquio preliminare, non vincolata da un contratto registrato. E travolta dagli impegni quotidiani. “Con la fame di aiuto che c’è in giro – spiega Marina Filippi – chi accoglie fa fatica a limitarsi: e può succedere che l’ au pair scivoli nel ruolo di domestica tutto fare”. E’ essenziale mettere le cose in chiaro prima di partire, specificare i compiti, chiarire le aspettative. Per chi non lo fa, il pericolo è in agguato: impegni settimanali che superano le 50 ore, genitori che scompaiono per interi giorni (e notti). Ragazze costrette a dormire su un pianerottolo. E la paghetta? E’ lasciata alla contrattazione fra le parti: facile immaginare come vada a finire. Da membro della famiglia sbarcata per fare un’esperienza culturale, l’au pair può anche ritrovarsi colf segregata in cucina. Nessuno a cui chiedere consiglio, la fuga è inevitabile. E la ricerca diventa un giro di valzer. Anche perché…
I guai per le famiglie – … la verità è che fra profilo virtuale e presenza reale c’è di mezzo la vita. Aggiungere un posto a tavola significa abbracciare fragilità, gestire sbalzi di umore. Parola di agenzia: “A volte l’abbinamento ragazza-famiglia semplicemente non funziona – spiega Elena Necchi – per carattere, stili di vita. Empatia. Tutto ciò nonostante si siano fatti i colloqui preventivi, ci sia un contratto fra le parti”. Figuriamoci quando questo non c’è. Il fatto è che molte ragazze non si rendono conto della responsabilità. “Alcune pensano di essere in vacanza – spiega Marina Filippi dell’APE – molte sottovalutano la portata dell’impegno. Rifiutano di dare una mano. Entrare in una famiglia significa fare uno sforzo di integrazione; andarsene all’improvviso significa gettarla nel panico”. Se l’iscrizione è gratuita, spesso le ragazze si registrano sui siti senza la reale voglia di partire: così, per vedere come funziona. E poi giocano al rilancio con le paghette, mettendo più famiglie in concorrenza: per poi sparire capricciosamente nel nulla, magari una settimana prima della partenza. Per troppe ormai l’esperienza au pair non è che un salvagente per lasciarsi genitori e problemi alle spalle; o un ponte verso quel futuro professionale oggi sempre più nebbioso. “Ho trovato un lavoro vero – scrive Alice alla famiglia ospitante – non posso perdere questa opportunità: me ne vado”. Preavviso: 3 giorni. Il giro di valzer continua.