Un mammut in giardino? Accade a Pietro, contadino del Valdarno. Che un giorno deve smettere di vangare perché le zolle rigurgitano due zanne. Pietro chiede aiuto, la notizia si diffonde. Arrivano i geologi. E’ il 1953. Ciò che emerge dalla fossa di S. Giovanni Valdarno è stupefacente: un mammut completo, alto 4 metri, adagiato su un fianco. Morto un milione di anni fa, probabilmente di vecchiaia. Il mastodonte del Pleistocene è senza peli perché vive in un clima caldo, le sue zanne sono lunghe, il buco centrale lasciato dalla proboscide somiglia un po’ all’occhio dei Ciclopi (e spiega forse qualcosa sul mito di Polifemo…). Coperto dagli strati del tempo, risparmiato dai maremoti, custodito dalle glaciazioni, questo precursore dell’elefante è affidato alla mani della Storia. Che lo consegnano intatto alla vanga dello sbalordito contadino.
I mammut scompaiono recentemente, con le glaciazioni – Oggi Pietro – il mammut – troneggia al centro della galleria dei vertebrati del Museo di Geologia e Paleontologia di Firenze, una delle sei sezioni del Museo di Storia Naturale. Accanto a lui, Linda, recuperata vent’anni più tardi a Farneta, vicino a Cortona, da don Sante Felici, parroco-archeologo, nominato addirittura Ispettore onorario dalla Sovrintendenza. Sono gli anni ’60, i lavori per la costruzione della rete viaria del paese – dall’A1 alla Siena-Bettolle – fanno affiorare tutto ciò che il tempo ha occultato, dai fossili del pliocene ai vasi etruschi: don Sante decide che le vestigia della terra sono importanti quanto le anime che accudisce, e appronta un antiquarium nella cripta della parrocchia. E’ qui che trova rifugio la gigantesca Linda, prima di prendere la via di Firenze. Ma che ci fanno in Toscana tutti questi mammut?
“Ne abbiamo tantissimi – spiega il curatore del Museo Stefano Dominici – vivono nei periodi glaciali, scompaiono lentamente perché le loro dimensioni richiedono un elevato fabbisogno energetico, ma le glaciazioni riducono lo spazio vitale, fanno diminuire il cibo. Cosi le popolazioni si restringono, fino a sparire. Anche la caccia dà un contributo letale: via via che l’Homo Sapiens si espande, l’area occupata dall’elefante antico si contrae ”. La storia paleontologica della Toscana è un po’ la storia della terra, con le sue pieghe montuose prima inabissate e poi emerse, con i ghiacci che si estendono e poi si ritirano. Con le conchiglie che affiorano oggi in piena campagna. Di questa (pre)istoria vecchia di miliardi di anni, è custode il Museo di via La Pira, ricco di reperti, e capace di illustrare il lungo viaggio della vita sul pianeta, partendo dagli invertebrati del Paleozoico, passando per anfibi, rettili e dinosauri, fino ai nostri mammiferi. Accanto a Pietro e Linda, ecco gli scheletri del leone delle caverne e del leopardo, vissuti quando la Toscana era una savana. C’è l’ Oreopithecus bambolii, piccola scimmia antropomorfa sepolta da 9 milioni di anni. E c’è l’Eohippus, titolare di una storia affascinante quanto inedita.
Cavalli spazzati via dalle glaciazioni – “Pochi sanno che il cavallo nasce 50 milioni di anni fa in Nordamerica – spiega Dominici – vive nella foresta, ha 5 dita ed è grande più o meno come un cane”. Solo quando si evolvono le graminacee, cioè con la genesi dell’erba e la formazione delle praterie, l’animale esce allo scoperto, comincia a correre. Le 5 dita diventano 3, poi uno solo, lo zoccolo. La taglia aumenta. Due milioni di anni fa le popolazioni di cavalli cominciano a diramarsi attraverso lo stretto di Bering, prima in Asia, poi in Europa. Ma è l’ultima glaciazione a spazzarli via dall’America: saranno gli Spagnoli – paradossalmente – a riportare a ‘casa’ i discendenti europei di un albero della vita una volta floridissimo. “Quando affrontano i cow boys – continua Dominici – i nativi americani cavalcano la versione ‘selvatica’ di un animale che era nato lì, si era estinto, ed era stato riportato a casa dai conquistadores trecento anni prima”.
Quelli toscani non sono i mammut di Annibale – Da sempre dunque la storia evolutiva confluisce nella storia civile e culturale dell’Uomo. Questo pensiero fa da guida al Granduca Leopoldo di Toscana quando nel 1775 crea il Reale Museo di Fisica e Storia Naturale, unificando in un solo luogo – Palazzo Torrigiani in via Romana – tutti i dati naturalistici raccolti a Firenze fino ad allora, le collezioni fossili medicee, i reperti di Niccolò Stenone, e tutto quanto catalogato nel 1763 dal medico fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti. “Stenone è il vero padre del pensiero geologico – spiega la curatrice Elisabetta Cioppi – è lui a dimostrare che i fossili non nascono dentro le rocce, ma hanno origine organica, sono documenti lasciati dalla natura a testimonianza della storia della terra. Targioni Tozzetti ne raccoglie l’eredità, studia l’estinzione delle specie. E’ lui a dire che i mammut vivevano qui e si sono estinti, non sono stati portati dall’Africa, magari da Annibale quando combatteva contro i Romani: una teoria che piaceva tanto a Stenone…”.
Il contado entra al museo – A fine settecento, la fame di sapere scuote la società. Leopoldo è fra i primi a rifiutare il concetto di museo come luogo di ‘piacere privato del principe’ e ad aprire le sale di via Romana al pubblico: per la prima volta in Europa “il popolo di città e il contado possono essere introdotti, purché pulitamente vestiti”. Tra i visitatori – 7.000 solo il primo anno – il dato sorprendente è il numero delle donne: il 30% circa. Con la Restaurazione anche la Scienza ha una battuta d’arresto, superata ai tempi di Firenze Capitale d’Italia. Ma si dovrà attendere la fine dell’800 perché la collezione paleontologica fiorentina – staccata dal resto per mancanza di spazio – trovi la sede attuale, a San Marco. Oggi all’ ingresso di via La Pira, un curioso cartello accoglie i visitatori: è il biglietto stampato da Leopoldo per accedere al Real Museo nel 1775, dove si legge che sarà permesso entrare alle ore 10 di ogni mattina, ma si avverte anche che “passati 4 o 5 minuti dopo l’ora prefissa, l’accesso non sarà più possibile”. Altri tempi. Pleistocenici.