Mezzi di trasporto pubblico in Piazza Duomo? Il dibattito infuria già a fine ‘700, e l’amministrazione si schiera contro i nobili residenti e dalla parte dei fiaccherai. Quando arrivano i napoleonici, mentre l’aquila francese svetta sugli edifici pubblici, ogni famiglia è schedata: e lo chiamano censimento. Per accogliere Hitler, nel ’38, Firenze fa quasi bancarotta … Storia del Comune passando per le sue carte. Sono 35.000 reperti, 47.500 elaborati grafici, il tutto organizzato in 3 fondi: la vita di un’amministrazione cittadina narrata attraverso le delibere del periodo granducale, dell’Impero napoleonico, dello Stato unitario. Un patrimonio di atti che piazza il governo locale al centro del sistema. L’antico autonomismo medioevale legittimato a nuova vita.
E’ il Granduca Leopoldo l’autore della rivoluzione amministrativa, il sovrano punto da passioni riformiste e passato alla Storia per aver primo fra tutti messo a morte la pena di morte; meno noto per aver creato – accanto allo Stato granducale – le amministrazioni locali modernamente intese. Fra loro, la Comunità di Firenze.
E’ il 1782 : fino a questo momento, nelle città toscane traghettate dal dominio Medici ai Lorena, governano gli uomini del ‘princeps’, inseriti nelle singole realtà cittadine. “Questo giovane principe illuminato – spiega Luca Brogioni, responsabile dell’Archivio Storico – capisce che i liberi comuni medioevali hanno modellato nel tempo una Toscana meglio governabile se viene restituita autonomia ai territori”. Ecco dunque la ‘legge-quadro’: nasce (anche) la Comunità di Firenze, i cui uffici si occupano di acque, strade, mercati, commercio. Tutte competenze sottratte al governo del Granducato e passate ad un consiglio comunale di 20 membri e una giunta – con Gonfaloniere- estratti a sorte ogni anno fra chi paga le tasse. “E’ un processo davvero rivoluzionario, che porta ad un profondo ricambio nella classe dirigente – spiega lo storico Giulio Manetti – Un processo neppure concluso: Pietro Leopoldo immagina addirittura dei consigli elettivi. Ma i tempi non sono ancora maturi”.
Troppo visionario, l’autonomismo leopoldino impregna comunque di sé le amministrazioni fino al 1865, anno in cui il neo Stato Italiano – con la legge Lanza sulle autonomie locali – trasforma la Comunità di Firenze in Comune elettivo. Ma in questi 80 anni, i turbamenti della storia si riversano nei governi cittadini: l’Archivio di via Bastogi raccoglie le testimonianze di tutte le fibrillazioni attraversate, a cominciare dalla parentesi francese. Fra il 1808 e il 1814 a palazzo Pitti regna la sorella dell’imperatore, Elisa Bonaparte. Mentre l’esercito granducale diventa un battaglione di linea dell’Impero – e viene sbattuto in Polonia, e poi in Spagna – il codice napoleonico fa fare un passo indietro all’amministrazione fiorentina: gli organi di governo locali sono nominati a Parigi, i consigli ridotti a funzioni consultive. L’autonomia si ristringe. Col censimento del 1811 ogni stabile, ogni famiglia, ogni testa viene numerata. “E’ certamente uno strumento utile per quanto riguarda l’anagrafe, la leva, le tasse – continua Brogioni – ma è indubbio che la popolazione sia schedata: il controllo della Francia sul territorio diventa assoluto”.
Con la Restaurazione, a Firenze riappare la Comunità leopoldina. L’antico spirito autonomista torna a soffiare, soprattutto dopo i moti insurrezionali del ’48. A combattere contro l’Austria accanto ai Piemontesi ci sono i sudditi del Granduca; a Curtatone e Montanara – le ‘Termopili toscane’ – i volontari del generale Cesare De Laugier arrestano le forze austriache, di cinque volte superiori. Del mitico comandante, l’Archivio custodisce il carteggio privato, i sogni, gli ardori. E’ questa la Toscana che confluisce nello Stato unitario: figlia del buongoverno granducale, (quasi) scevra di esperienze liberticide, forte di uno statuto più avanzato di quello Albertino. “Entrando in Italia – continua Manetti – la classe dirigente regionale vuole mantenere questo assetto autonomistico, ha grandi aspirazioni, è sempre un po’ ribelle: lo si vede anche in epoca fascista. Ma è una scommessa persa”. Firenze viene schiacciata dalle grandi città, relegata a capitale dell’arte (per poi accontentarsi dell’artigianato). L’alta borghesia produttiva finisce scalzata dalla piccola, che di alto conserva solo l’ambizione.
Che i sogni sovrastino i mezzi, lo si vede nella favola bella di Firenze capitale – raccontata in Archivio – conclusa con un Comune strangolato dalle banche, in bancarotta (1878) e costretto a svendere un centro storico ridotto in macerie per far ripartire l’economia. Quanto all’anima ribelle del periodo fascista, decisamente non trapela dall’organizzazione della visita di Hitler a Firenze, nel maggio del 1938. Per scarrozzare il fuhrer fra statue di cartapesta e finte fontane, fasci e svastiche, giochi di luce e fuochi d’artificio – per una durata complessiva di 12 ore – il Comune spende un quarto del bilancio cittadino: 19 milioni di lire, sufficienti a mandarlo in tilt. In compenso il 17 agosto del ’44 le prime due ordinanze del Comune liberato rispondono a due precise richieste della comunità ebraica. Nella prima, si stabilisce che sui documenti sia abolita qualsiasi annotazione di tipo razziale. Nella seconda, che l’archivio dell’ufficio ‘Razza’ non sia soppresso, bensì conservato in un armadio sotto chiave: è l’unico modo per ritrovare tutti i membri della comunità dispersi dal conflitto. E mentre i partigiani continuano a combattere, Pieraccini esegue. Gli americani – volenti o nolenti – prendono atto. Un anno prima di Roma, Firenze recupera la propria amministrazione.