Il Rijk di Amsterdam mette le collezioni online, per aprirle gratuitamente a tutti. Il Met di New York ha una squadra di 60 persone solo per il digitale. L’Accademia di Firenze – nobile dimora della statua più ricercata al mondo – non ha neppure un informatico. Se lo tsunami tecnologico investe il pianeta, i musei internazionali non fanno eccezione: cavalcano l’onda, anche a rischio di stravolgere il mandato, di mettere il business al posto dell’uomo. Firenze invece , con qualche eccezione, sembra attardarsi nell’ 1.0. Forse è torpore da rendita di posizione, quella di chi non ha bisogno di darsi troppo da fare, tanto la fila alla porta c’è lo stesso; oppure di chi si scontra con la filiera burocratica, per poi rimanerne vittima, e magari complice. I risultati sono più o meno gli stessi: siti web in costruzione permanente, dove la vendita dei biglietti viene salutata come il maggior successo; una politica Social mirata all’annuncio; una digitalizzazione a rilento (o inesistente). Soprattutto, interventi sporadici: ‘mettetelo online’ – è la parola d’ordine – e il gioco è fatto. Sembra mancare la visione, il progetto editoriale di trasformazione strategica che analizzi l’utenza, colga le opportunità, minimizzi i rischi. Un cammino impegnativo, ormai inevitabile.
Siti web a costo zero – “Siamo molto indietro: ma recupereremo – afferma Heike Schmidt, direttore degli Uffizi – Intanto ci siamo riappropriati del nome, scippato da una serie di siti privati per motivi commerciali”. Nel museo più visitato d’Italia la metamorfosi numerica è coniugata al futuro semplice: per il momento, uso moderato ma in crescita dei Social (ancora niente Facebook), e utilizzo di un template ministeriale a costo zero per il sito, con vendita di biglietti, orari di apertura e poco altro. “Anche così facciamo 60.000 accessi al mese” afferma Lucia Mascalchi, responsabile della Comunicazione. Sul nuovo portale, 1/3 della collezione sarà disponibile in formato digitale, con immagini ‘navigabili’, percorsi tematici a colori, e aggancio con il Google art project, cosa che l’attuale sito non supporta. “Miriamo ad un percorso online all’altezza della collezione – continua Schmidt – vogliamo essere attori della trasformazione, e non passivi custodi dei contenuti. Il digitale, con tutto lo sviluppo tecnologico che gli ruota attorno, può offrire nuove opportunità di interpretazione della collezione, renderla più fruibile, e dunque arricchire l’educazione e la ricerca, cuore dell’attività di un museo”.
Altro che social, neppure un informatico – Situazione più difficile alla Galleria dell’Accademia: il sito è fatto in casa, una soluzione di passaggio come agli Uffizi, in seguito alla dissoluzione del Polo museale. Niente interazione con l’utenza virtuale, o digitalizzazione delle opere, le urgenze sono altre: “Altro che social media, non abbiamo né un informatico, né un fotografo. Non possiamo digitalizzare foto che ancora non sono state fatte…” afferma Cecilie Hollberg, direttrice di una istituzione che richiama 1,4 milioni di visitatori l’anno, in continua crescita. “Fino all’anno scorso non c’era neppure il personale amministrativo. Ma la priorità adesso riguarda gli inventari: dobbiamo mettere insieme un database unico”. Anche il nuovo sito dell’Accademia sarà operativo a breve: deve affrontare – fra l’altro – il problema delle code, obiettivo meno altisonante dei tour virtuali, ma certo apprezzato dall’utenza che staziona per ore in via Ricasoli.
In controtendenza – In controtendenza l’Opera del Duomo. “Ormai sito dinamico e uso dei social sono scontati, bisogna andare oltre – afferma la responsabile web Alice Filipponi – Abbiamo sviluppato 7 applicazioni di approfondimento sulle opere, di cui l’ultima, Autography, spinge l’utenza a scrivere sul sito piuttosto che sui monumenti: un successo immediato”. E’ stata l’Opera a promuovere MDT, Museo Digital Transformation, convegno sulla trasformazione digitale che porta a Firenze i rappresentanti di alcune fra le più prestigiose istituzioni culturali del pianeta. Esperti e manager privi di dubbi: se non esisti online, oggi non esisti proprio.
Rembrandt sui cartoni di latte – Al solito gli americani volano alto: il loro museo – piazza del sapere non è più rivolto ai cittadini, e neppure ai turisti. Il Metropolitan di New York guarda direttamente al mondo. “ A fronte di 6.7 milioni di visitatori, oggi abbiamo 31 milioni di contatti l’anno sul sito – afferma il chief digital officer Loic Tallon, capo di una squadra di 60 persone, di cui 25 solo a produrre contenuti – Puntiamo presto al miliardo di utenti attraverso piattaforme diverse come Artstor, Pinterest, Wikimedia”. Il trend anglosassone di mirare all’opera d’arte riprodotta investe anche il Rijk di Amsterdam: buona parte della collezione è ormai digitalizzata, sono 60.000 i pezzi online, con foto in alta risoluzione e porte del copyright spalancate: chiunque può scaricare la collezione dal sito, le foto possono essere tagliate, modificate, persino vendute a fini commerciali. Il marketing d’arte si è impennato, con la Ronda di notte di Rembrandt stampata sui cartoni di latte, e i colori delle tele di Vermeer spalmati su palette di make-up. “Fare soldi, che male c’è? – afferma Linda Volkers del Rijk – I musei pubblici si sentono proprietari degli oggetti conservati, ma non lo sono, ne sono solo i guardiani : le opere appartengono a tutti”.
Ognuno direttore del proprio museo? Con l’abolizione dei diritti per l’uso delle immagini – oggi previsti per legge in Italia – l’erario pubblico verrebbe a perdere oltre mezzo milione di EUR l’anno per i soli musei delle Gallerie degli Uffizi. Ma per il Rijk, una volta presa la strada della condivisione, bisogna percorrerla. “La tecnologia ha cambiato il nostro approccio alla fruizione dei musei – continua Volkers – dovremmo abbracciare questo fatto invece di combatterlo. Dovremmo abbracciare l’idea che i ragazzi smanettano sul telefonino. Questo può stimolare la creatività, avvicinare nuovi utenti, portare ad una maggiore condivisione dell’arte e del processo artistico. Ognuno può diventare direttore del proprio Museo”. Il digitale dunque non più solo strumento, bensì modo di pensare che cambia il modo di fare le cose. Con quali rischi?
La National Gallery di Londra – che fino allo scorso anno aveva lo stesso numero di contatti web e di visite ‘fisiche’, cioè 6 milioni e mezzo – ha intrapreso il cammino digitale da soli 3 anni. “Ma siamo pronti al grande salto – afferma Mona Walsh – vogliamo intercettare un’utenza oggi lontana, rendendo ‘digeribile’ nei nuovi formati un contenuto accumulato in 200 anni di storia”. Ed ecco – a breve – collezioni organizzate per episodi come capitoli di un libro; itinerario di visita personalizzato e scaricato sul telefono; account individuali sul sito cui ogni utente può tornare a piacere.
L’esperienza off line – Un futuro con poche parole, e un diluvio di immagini. Magari videogiochi : oggi gli applied games fanno sempre più da supporto ai contenuti museali. Un mercato in continua espansione. Ma se il pubblico è mondiale, le visite digitali, il marketing d’assalto, c’è il rischio che l’istituzione in sé diventi alla fine ‘superflua’. “Il web dà informazioni e servizi, ma l’esperienza dal vivo è insostituibile” commenta Tommaso Sacchi, capo segreteria culturale del Comune di Firenze, da cui dipendono i musei civici. Fra loro Palazzo Vecchio, i cui tesori da qualche giorno appaiono in versione digitalizzata sulla piattaforma di Google Arts&Culture. “Ci appoggiamo alla tecnologia per permettere la diffusione del patrimonio ad un’audience globale, sperando che qualcuno poi venga a trovarci”. Il dubbio è che sia Google a sfruttare l’immagine delle nostre opere, più che il contrario. “Esperienza ‘on’ e ‘off line’ non sono in concorrenza, devono essere integrate – rinforza Schmidt – L’importante è che l’istituzione mantenga il controllo della comunicazione digitale”.
C’è anche un altro rischio: che il museo si converta in una ‘digital company’, con la vendita al posto della ricerca fra le finalità primarie. “Certo oggi il traino è commerciale, si cerca di vendere tutta questa tecnologia, invece dovremmo essere più critici – avverte James Bradbourne, ex direttore di Palazzo Strozzi oggi al Museo di Brera, a Milano – Perché esiste un museo? Non per diventare teatro di innovazione tecnologica: esiste perché fa parte dell’identità cittadina, e se si dimentica la sua centralità nella vita culturale e civica, abbiamo perso la strada”.