DOMODOSSOLA – Nel cuore di una foresta della Val d’Ossola c’è un villaggio con due soli abitanti. “Io faccio il sindaco – scherza Maurizio, 38 anni, una laurea in scienze ambientali – anche se Paola non mi ha votato. Ma alla fine mi sono imposto…”. Da qualche tempo Maurizio Cesprini, ex insegnante, e Paola Gardin, architetto, vivono a Ghesc, antico borgo medioevale abbandonato all’ingordigia di una vegetazione selvaggia: con la forza e la testardaggine degli avi, hanno rimesso in piedi una casa vecchia di settecento anni, l’hanno strappata ai castagni, hanno rifatto i muri, portato l’acqua. Vivono soli in mezzo alla foresta, ed hanno una missione nella vita: fare di questo pugno di case diroccate un laboratorio per il recupero e la valorizzazione dell’architettura locale in pietra.
Oggi per esempio, ospitano un gruppo di studentesse americane, venute a ‘sporcarsi le mani con i sassi’. Il campo scuola di Ghesc offre ai ragazzi la possibilità di toccare con mano cosa significhi davvero il recupero dell’architettura medioevale. Per porre riparo all’incuria del tempo, e riappropriarsi di questi antichi casolari, si comincia con lo strappare le pietre alla natura, una per una. “Dobbiamo ricreare gli spazi – spiega Paola – ritrovare le forme, le linee di un’antica convivenza. Quando si arriva al recupero vero e proprio, i muri vengono rafforzati com’è sempre stato fatto nel tempo da queste parti, con calce e acqua”. E pietre, ovviamente. Che gli studenti dissotterrano, puliscono, accatastano. Abbracciano. Sotto le loro avide dita, Ghesc sembra ritrovare un po’ dell’antica energia. E l’alchimia misteriosa fra uomo e natura rinnova tutta la sua magia in questo remoto borgo dell’Ossola. “Spieghiamo ai ragazzi l’importanza di rispettare il passato – afferma Maurizio – La storia non ci appartiene, però possiamo preservarla. Queste case non sono ‘nostre’, noi le abitiamo, e abbiamo il dovere di garantirne la continuità storica, passandole da una generazione all’altra”.
Il sogno.Il sogno di fare di Ghesc un villaggio-laboratorio nasce venticinque anni fa, e non appartiene a Maurizio, bensi a Ken Marquardt, un non-architetto, coltivatore di rose nato in Arkansas. Nel 1989 Ken giunge per caso nel borgo di Canova, villaggio medioevale sorto a mezz’ora di marcia da Ghesc sui resti di una strada romana che portava in Svizzera. Aggirandosi fra cumuli di rovine, Ken sente improvvisamente risolto il dilemma che lo tormentava da quando era sbarcato in Europa con la moglie Kali e pochi soldi in tasca, molti anni prima. “Comprai una casa con niente, d’altronde a Canova non abitava quasi più nessuno, gli antichi abitanti se ne erano andati dopo la guerra, cercando lavoro in città. Mi rimboccai le maniche – ricorda Ken – e cominciai a rifare i muri. La gente mi guardava con sospetto, pensavano fossi il solito americano stravagante a caccia di capricci da soddisfare”.
Ken è affascinato dalle vecchie costruzioni di una volta: pensa che le pietre possano offrire all’uomo un ambiente sano e confortevole, magari non perfetto, ma certo armonioso. Crede che gli edifici si portino addosso le diverse incarnazioni della propria esistenza, i cambiamenti, anche i traumi. E si convince che restaurare voglia dire ascoltare le storie che la casa ha da raccontare: far tornare alla luce tutta una vita, rispettandola. “Le case cambiano nel tempo – spiega – ma le pietre smussate dai secoli, le imperfezioni naturali sono splendide,: credo che la nostra ossessione per le ristrutturazioni perfette, per muri lisci e nuovi, per la simmetria, nasconda in fondo una certa paura di fronte al trascorrere della vita. Ecco perché alla fine spesso si opta per le demolizioni: far piazza pulita non implica nessun confronto col passato…”.
Davanti a quest’americano testardo cotto dal sole, che parla di patrimonio da preservare e di vita in armonia con materiali e storia, la Gina e la Giacoma, uniche due anziane residenti di Canova, scuotono la testa… Ken è tenuto a distanza.
Finchè un giorno, lenta ed inattesa, arriva la svolta. “Mi resi conto che le cose stavano cambiando, quando qualcuno cominciò a passarmi vicino mentre sbuffavo con la calce in mano, e a dirmi: ehi tu, certo che sei un gran lavoratore… ” Cosi quando un avvocato svizzero, affascinato dal lavoro di Marquardt, decide di comprare non una, ma ben due case, e di affidargliele per il restauro, Ken capisce di non essere più solo: nel giro di pochi anni, Canova torna a vivere, l’antico villaggio diroccato viene rimpiazzato da un borgo popolato da sei famiglie e quattro residenti occasionali che condividono l’amore per l’architettura in pietra. A Canova Ken e Kali fanno nascere e crescere le due figlie. E soprattutto nel 2001 viene fondata l’Associazione Canova, 120 soci fra architetti, geometri, costruttori, insegnanti, e semplici residenti. Uniti dalla convinzione che demolizioni e ristrutturazioni indiscriminate si stanno rapidamente ingoiando un patrimonio inestimabile, e che è necessario passare all’azione prima che sia troppo tardi.
L’associazione.Nasce cosi un programma di eventi, all’inizio riservato ai soli soci, ma oggi sempre più aperto ad un pubblico che deve essere sensibilizzato e coinvolto. Si capisce presto che concerti, pubblicazioni e visite guidate non bastano: per farsi conoscere Canova deve fare rete con scuole e centri di ricerca. I primi partners sono stranieri, come accade spesso in Italia: per anni l’Associazione ospita campi-scuola in restauro architettonico, soprattutto ad uso di studenti americani. La prima ad arrivare è l’Università del North Carolina, seguita dalla Yestermorrow Design Built School del Vermont e dalla Willowbank School of Restoration Art dell’Ontario. Nel frattempo, la fama della battaglia ingaggiata dalla piccola comunità ossolana per il recupero dell’eredità medioevale, riesce a valicare i labili confini nazionali (senza peraltro averli scalfiti….). L’Associazione imbastisce e nutre – anno dopo anno – un Incontro Internazionale di architetti che è arrivato nel giugno scorso a portare in Val d’Ossola nomi di fama mondiale come Glenn Murcutt o Salma Samar Damluji, leaders indiscussi nel campo della conservazione architettonica.
E finalmente anche l’Italia sembra accorgersi di quanto si agita nella valle del Toce: nel 2012 viene formalizzata una collaborazione fra Associazione Canova e Politecnico di Milano per l’uso della tecnologia digitale laser applicata ai resti di Ghesc. “E’ bello avere studenti che maneggiano pietre, mentre altri sono lì accanto a fare foto in 3D, utilizzando quanto di più sofisticato la tecnologia possa oggi offrire per il recupero architettonico. Il vecchio e il nuovo si incontrano – commenta Marquardt – per uno stesso scopo”. Intanto la rete degli amici italiani di Canova si rafforza: Carlo Monti – il padre delle misure digitali del Duomo di Milano e di San Marco a Venezia – e Maurizio Di Stefano, presidente di ICOMOS Italia, il Consiglio Italiano dei Monumenti e dei Siti – appoggiano il progetto con entusiasmo. Quest’anno a settembre anche il Politecnico di Torino sbarcherà per la prima volta a Ghesc per un laboratorio teorico-pratico di una settimana sui terrazzamenti in Val d’Ossola. “Non sarà un puro esercizio accademico – spiega Marquardt – alle lezioni teoriche e all’incontro con popolazione ed enti locali, seguirà il lavoro pratico, con il recupero di un terrazzamento tra Ghesc e Croppomarcio”.
E proprio insieme a Torino, l’Associazione sta pensando ad un partenariato per la ricerca di fondi. Perché ormai è tempo di diventare grandi e porsi nuovi obiettivi. La sfida di oggi? Rafforzare il rapporto con la realtà locale, diventare punto di riferimento per la Valdossola, per la Regione. Per l’intero paese. Proporre agli studenti italiani quello che ancora fanno (soprattutto) gli stranieri. Fare un salto di qualità. “Se vogliamo crescere – spiega Maurizio – dobbiamo ridefinire nuovi ruoli, incanalare meglio le nostre energie. Con tutto quello che c’è da fare, il volontariato non è più sufficiente”.
Daniela Cavini