Il cranio? E’ una buccia ossea, un astuccio. “Studiamo il cranio e i capelli, così come i costumi dei popoli: niente di ciò che appartiene all’Uomo ci è estraneo”. E’ il 1870: a Firenze capitale d’Italia, un medico-fotografo impone allo studio dell’Uomo una dimensione scientifica. Si chiama Paolo Mantegazza, e dà vita alla prima cattedra universitaria, al Museo Nazionale e alla Società Italiana di Antropologia. Obiettivo: raccogliere e analizzare le testimonianze della diversità antropica sulla terra. “Non si disprezzi un pelo, non si dimentichi nulla – scrive – Pigliamo tutte le prospettive di questo dio umano”. E infatti non si limita a collezionare manufatti: comincia anche a raccogliere teschi di fiorentini dal vicino ospedale di Santa Maria Nuova.
Poligamo di molte scienze, uomo politico affermato, Mantegazza è un visionario che rigetta tradizioni religiose e teorie filosofiche. Sotto la sua guida si struttura una straordinaria raccolta di abiti e gioielli, armi ed oggetti liturgici, scheletri e maschere funerarie: ancor oggi, circa 25.000 manufatti narrano il grande romanzo della vita umana. Lo fanno dalle teche di via del Proconsolo, dove ha sede la sezione di Antropologia ed Etnologia del Museo di Storia Naturale. Una collezione straordinaria, anche se tutt’ora ancorata al (poco fruibile) impianto ottocentesco che la genera.
Ma come nasce questo racconto del mondo? I primi ad accumulare oggetti esotici sono i Medici: fin dal 1550, vascelli carichi di racconti fantastici, piante sconosciute e manufatti stravaganti approdano sulle coste europee dalle regioni del Sud America. Il mito dell’Eldorado nutre il collezionismo dei potenti, l’esibizione di manufatti rari diventa svago ricercato nelle corti, e i regnanti fiorentini non fanno eccezione: sono di Cosimo II il mantello di penne indossato dai sacerdoti del culto del dio Sole in Brasile, o i propulsori di frecce Aztechi, oggi in mostra a Palazzo Nonfinito.
Ci vuole la visione illuminata del Granduca Pietro Leopoldo di Lorena per fare il passo successivo: schiudere le porte della cultura inserendo un collezionismo privato fine a se stesso, in un grande progetto museale destinato al pubblico. Dalla pura raccolta, alla conservazione e lo studio: nasce la Specola – uno dei primi musei scientifici al mondo. Le collezioni si ingrandiscono. Nel 1780 è proprio il direttore, Felice Fontana, a mettere le mani a Londra sugli oggetti recuperati un paio d’anni prima dall’esploratore James Cook durante il famoso – e drammatico– terzo viaggio. Dopo la Polinesia, Cook e compagni approdano in Canada occidentale, e ne riportano manufatti di ogni tipo, fra cui il maestoso abito da lutto che gli indigeni chiamano Heva o la maschera di legno e capelli umani raffigurante un giovane guerriero defunto. Peccato che dopo essere stato accolto come un dio, Cook finisca sventrato e bollito dagli Hawaiani secondo un antico rituale riservato ai capi e agli anziani: il cammino verso la conoscenza (c’è chi lo chiama colonialismo) ha le sue vittime.
E arriviamo così all’800: è solo dopo Darwin che i musei smettono di essere “magazzini di chincaglierie”, per trasformarsi in depositi di prove della grande catena evolutiva. Con l’unità d’Italia, le collezioni dei Medici e quelle dei Lorena arrivano nelle mani di Mantegazza. “Dopo l’unificazione del paese – afferma Francesca Bigoni, operatrice e studiosa a palazzo Nonfinito – c’è una forte ricerca di identità nazionale, che si costruisce anche guardando gli altri. Da qui l’intensificarsi delle esplorazioni”. Che si nutrono dell’euforia tecnico-scientifica di fine secolo. Mantegazza sguinzaglia missioni in vari angoli del pianeta, tutte armate di macchina fotografica (e infatti oggi il Museo gode di un archivio di 35.000 foto in bianco e nero). Intanto dà vita ad una delle collezioni osteologiche fra le più importanti al mondo: migliaia i resti umani conservati, dalla Nuova Guinea all’Indonesia. Curiosamente, ci sono anche 64 scheletri provenienti dal Cimitero Comunale di Siracusa, e 83 fiorentini. Un vero archivio biologico della variabilità umana, inclusa quella di popolazioni estinte come gli indigeni della Terra del Fuoco. Al tempo stesso,lo scienziato combatte ogni forma di ‘riduzionismo craniologico’: “Se tu prendi il cranio per criterio di classificazione – scrive – rischi di metter vicino popoli diversissimi, e di separare i fratelli”. Mantegazza non esita a radiare Cesare Lombroso dalla Società di Antropologia per le sue teorie sul carattere anatomico delle facoltà intellettuali. “Non c’è nessuna superiorità, siamo tutti frammisti – scrive – perché ci siamo mescolati fin dall’inizio”. E ancora: “La razza è un mito creato dal cervello”.
Le sue teorie non incontrano il gradimento delle autorità fasciste: negli anni ‘30 l’antropologia si compromette col regime, dando origine all’oscura parentesi coloniale. Ed ecco le indagini su peso e volume del cervello dei popoli africani; ecco le maschere facciali realizzate su Pigmei e Zulu viventi dal nuovo direttore del Museo Lidio Cipriani, tese a dimostrare la superiorità della razza bianca. Ritorna la ‘craniologia razziale’: eppure è proprio dall’Africa che 200.000 anni fa ci siamo incamminati come Homo Sapiens verso l’Europa, attraversando lo stretto di Bering e l’America fino a scendere nelle regioni andine. Qui, gli ultimi popoli indigeni combattono oggi per difendere la foresta amazzonica e la propria identità a rischio. Fra loro, gli Yanomami, vissuti in totale isolamento fino al 1950. “Stiamo lavorando con questo popolo – continua Bigoni – che è oggi non più solo ‘oggetto’ ma anche ‘soggetto’ della ricerca sui propri manufatti più antichi esposti al Museo”. Si chiama ‘antropologia collaborativa’, vede il museo come zona di contatto, come spazio in cui il passato non viene rimosso, e i danni delle gestioni coloniali riconosciuti. In cui viene rinegoziata una nuova relazione morale, in un dialogo ormai esplicito fra ‘noi’ e ‘loro’. Anche perché – ormai si sa – siamo tutti frammisti: ci siamo mescolati fin dall’inizio.