CARRARA – Carrara sta ricostruendo La Mecca. Dagli alberghi all’aeroporto, dai grattaceli alle moschee, il nuovo volto dell’antica roccaforte del mondo islamico sarà presto lastricato grazie ai marmi di Michelangelo estratti dal bacino della città toscana.
Per garantirsi il materiale necessario a completare il faraonico progetto, il gruppo saudita dei Bin Laden è sbarcato sulle Apuane. L’anno scorso la famiglia dell’ex numero uno di Al Qaeda ha investito 45 milioni di euro per assicurarsi il 50% della Marmi Carrara, il gruppo più importante del comprensorio del marmo, che attraverso la Società Apuana Marmi (SAM) controlla 1/3 delle concessioni delle cave – ma molto di più in termini di punti estrattivi. Da decenni attivi nel comparto, i Bin Laden passano da semplici acquirenti ad estrattori, entrando ufficialmente nella proprietà di gran parte di quelle miniere, e assicurandosi così il controllo dell’approvvigionamento del tanto ricercato ‘bianco’. Un’altra fetta della nostra economia che migra in mani straniere gonfie di liquidità. Un altro spicchio del nostro paesaggio che si converte in pavimenti, spinti verso i deserti sauditi dalla logica del business.
Dinastia di nomadi divenuti titolari di un impero, i Bin Laden sono da anni fra i principali acquirenti del marmo carrarese; quello utilizzato nei secoli per la Colonna di Traiano e il David di Michelangelo, per la cattedrale di Siena e l’Hermitage di San Pietroburgo, per il Duomo di Firenze e il Marble Arch di Londra. Persino per la Freedom Tower innalzata a New York, là dove erano le Torri Gemelle. Non è neppure la prima volta che il gruppo saudita entra in una società italiana per garantirsi il prezioso materiale: era già successo nel 1989, quando i parenti del famigerato sceicco avevano aperto la Mimar (chiusa nel 2006) per seguire da vicino la fornitura del marmo necessario al restauro della grande moschea de La Mecca, luogo sacro per i seguaci del Profeta, che vi si recano annualmente a milioni per compiere il rituale pellegrinaggio. Alla conclusione dei lavori, i Bin Laden avevano chiuso la società. Ma cosa accadrà questa volta?
Milioni di pellegrini in arrivo
Stavolta l’obiettivo è più ambizioso: l’Arabia Saudita sta aumentando le capacità ricettive de La Mecca di circa 1 milione e 200.000 posti, destinati ai pellegrini che sempre più numerosi affollano la culla della civiltà arabo-islamica. Si pensa soprattutto agli indonesiani, popolazione musulmana in rapida crescita economica, che ha iniziato a muoversi per fare il pellegrinaggio, ma non disprezza neppure le vacanze sul Mar Rosso. Anche la Grande Moschea è nuovamente in fase di espansione: si stanno terminando i lavori al lato ovest, in modo che la capienza globale possa superare il milione di fedeli durante la stagione sacra dell’hajj. Insomma, il lavoro non manca. In effetti il marmo di Carrara sta vivendo una nuova stagione d’oro in Arabia Saudita come in Cina o India; dalle cave che fanno capo a SAM si estraggono ogni anno blocchi preziosi diretti in tutti i paesi del mondo. Eppure 4 famiglie carraresi hanno deciso di disfarsi delle azioni e mettere la Marmi Carrara praticamente nelle mani del gruppo saudita, la CpC Holding, società al 100% della Saudi Bin Laden Group. Il cui vice-presidente El Mouthaz El Sawaf, libanese, è – oltretutto – socio al 20% della Henraux Spa, una delle realtà più importanti sul versante lucchese. Sicuramente segnali di forte interesse degli arabi nel comparto marmifero. Ma chi sono dunque questi Bin Laden, novelli industriali dell’escavazione a Carrara?
Da nomadi a miliardari
Il capostipite è Mohammed, che crea praticamente dal nulla un impero valutato oggi 30 miliardi l’anno: intrecciando i propri affari con quelli della famiglia reale Saud – soprattutto grazie alla costruzione di moschee – il patriarca riceve la spinta necessaria a sbarcare in America. I suoi 54 discendenti diretti (avuti da 22 mogli) aprono uffici in Florida, Texas e California, entrando nel business del petrolio – anche con la famiglia Bush – delle spedizioni, degli aeroplani. Quella del comparto aereo è una specie di mania, ma anche di maledizione: non solo il fondatore del gruppo Mohammed muore nel 67 in un incidente aereo, ma anche il figlio Salim, suo primo erede, si schianta in Texas nel 1988 alla guida di un ultraleggero, e nell’agosto scorso una matrigna e una sorella di Osama muoiono a bordo del proprio jet precipitato su un parcheggio in Gran Bretagna. Già con Salim, i Bin Laden cominciano a diversificare gli investimenti: negli anni successivi alla sua morte, alla guida del gruppo passa il fratello Bakr, che divide l’eredità fra tutti i figli di Mohammed (compreso il leader di Al Qaeda) facendo intascare ad ognuno ben 18 milioni di dollari. Sono ancora gli aerei protagonisti del settembre 2001: ma mentre Osama vira verso il fondamentalismo, il gruppo guidato da fratelli e nipoti prende le distanze dal famigerato congiunto e continua ad espandersi, arrivando fino a 40mila dipendenti. Oggi l’azienda di famiglia spazia dalle telecomunicazioni alle società di investimento, dai cosmetici alle banche; l’edilizia resta comunque il core business dalla holding Saudi Bin Laden Group (sono terzi nel mondo per fatturato). Oltre ai lavori a La Mecca, i sauditi si sono aggiudicati l’appalto per la costruzione della Kingdom Tower di Jedda – l’edificio più alto del mondo – e l’ampliamento dell’aeroporto internazionale della città. Insomma, i marmi di Carrara sono solo un tassello dell’intricata rete economica intessuta dagli sceicchi arabi. Che hanno messo le mani anche sulle cave più belle del mondo.
Il business dei detriti
Formatesi oltre 200 milioni di anni fa, le Apuane appartengono ad una cultura millenaria e sono da sempre motore e orgoglio dell’economia della regione. Di una bellezza stupefacente, le montagne bianche sono state nei secoli fonte di approvvigionamento di marmo per generazioni di artisti, dal Buonarroti a Canova, dal Bernini a Moore: un branding vecchio di duemila anni, destinato ad attrarre clienti esclusivi. Territorio unico per il patrimonio geologico, il parco delle Apuane è stato anche proclamato geoparco dall’UNESCO, e come tale inserito in una ristretta lista di luoghi protetti (solo 8 in tutta Italia). Nonostante questo all’interno del parco sono ancora attivi una trentina di bacini di escavazione, con cave all’interno di boschi, di circhi glaciali, aggrappate alle creste dei monti, o in corrispondenza delle sorgenti dei fiumi: una situazione che allarma sempre più numerose associazioni ambientaliste e culturali.
Oltretutto negli ultimi cinquanta anni è stata estratta la stessa quantità di marmo che era stata prelevata nei precedenti duemila. Un tasso di accelerazione di sfruttamento altissimo, alimentato da seghe, pale meccaniche, fili diamantati e altro. “Le montagne sono divenute ostaggio dell’economia – dichiara Bruno Giampaoli, Presidente della sezione locale di Italia Nostra – La nostra preoccupazione non è Bin Laden, bensì la crescente distruzione delle cavità carsiche, l’inquinamento delle acque, l’asportazione dei crinali. Nonché l’esaurimento definitivo di una risorsa non rinnovabile”. Ma a quanto ammonta l’estrazione di questi marmi unici al mondo? Si sa che nel 1950 cadevano 195.000 tonnellate di marmo l’anno, ed oggi si parla di milioni. “Dalla pesa pubblica della sola città di Carrara – afferma Franca Leverotti, Consigliere Nazionale di Italia Nostra – sono passati tra il 2001 e 2010 circa 50 milioni di tonnellate di marmo, un dato certamente inferiore alla realtà, che offre la misura della immane distruzione di queste montagne”. Il comune più produttivo è sicuramente quello di Carrara, con 81 cave attive – ognuna può avere vari punti estrattivi – a fronte di 28 nel resto della provincia e 39 nel lucchese, per un totale di 149 nel comprensorio apuano. Quelle censite sono circa 200, dunque le cave in attività sono diminuite nel tempo. Molte sono state abbandonate nel passato quando il marmo cominciava a scarseggiare, o non era più buono. Sicuramente prima che scoppiasse il business dei detriti: fino agli inizi degli anni ’90 infatti, i residui dell’estrazione dei blocchi erano considerati spazzatura e non venivano utilizzati. Oggi invece, l’affare che sta smontando le montagne è proprio quello della polverizzazione delle scorie. Molti sono gli usi industriali (ma anche agricoli) del carbonato di calcio prodotto dalla frantumazione dei marmi di scarto: finisce come riempitivo nella colla per piastrelle e nei cementi, nei dentifrici e nelle creme, negli antiparassitari e nelle vernici. Non è solo un ottimo schermante per materiale radioattivo, ma è anche attivo nella desolforazione dei fumi delle centrali elettriche a carbone. Insomma, se gli scarti – rimanendo ai piedi della montagna – prima rallentavano l’estrazione dei blocchi, oggi sono più preziosi dei marmi stessi, anche perché più facili da ottenere: ci sono addirittura frantoi mobili che lavorano direttamente nelle cave. Ridurre monti in farina è diventato un vero business.
L’estrazione fantasma
Così, se ufficialmente ogni anno si estraggono nel carrarese all’incirca un milione di tonnellate di blocchi, altri 3 milioni – ma la cifra è in diminuzione – vengono portati via in detriti di vario tipo. “Se poi accanto a Carrara si considera anche il resto del comprensorio – afferma lo scrittore Giulio Milani, autore di varie pubblicazioni sull’argomento – si arriva a 5 milioni di tonnellate di materiale annualmente sottratto ai monti. Cui bisogna aggiungere il bottino dell’economia a nero”. In effetti nessuno sa a quanto ammonti l’estrazione ‘fantasma’, quella cioè che evita la Strada dei Marmi, la pesa pubblica ad essa connessa, e finisce ad alimentare l’economia a nero. Si sa però che la Finanza ha cominciato ad indagare, e recentemente uno dei colossi del marmo più pregiato, la ditta carrarese Sagevan, si è vista presentare una notifica di presunta evasione da mettere i brividi. Lo scorso anno l’azienda dichiarava poco più di 5 milioni di utili netti, saliti a 8 e mezzo quest’anno, dopo aver ricevuto una contestazione di presunta evasione per 64 milioni di EUR in 4 anni (2009-2013, circa 16 l’anno). La Sagevan nega ogni addebito e si dice pronta a ricorrere a vie legali. La vicenda verrà chiarita, ma i dubbi su una sistematica sottofatturazione del marmo – così come sul trasloco di pezzi di montagna lungo sentieri non ufficiali – sono più vecchi delle recenti indagini dei finanzieri. Mentre la giustizia fa il suo corso, la domanda rimane: tutto questo marmo tirato giù, che vantaggi porta all’economia locale?
Una filiera locale in bilico
Anche qui i pareri divergono. “Carrara non ha l’esclusiva sul marmo bianco: se si fosse detto ‘ no’ ai Bin Laden – afferma Attilio Bencaster, geologo, titolare della Demetra Quarry – il lavoro sarebbe andato in Turchia, per esempio all’isola di Marmara, che va fortissimo”. La guerra delle cifre vede Assindustria e Legambiente contrapporsi sul numero degli addetti nel distretto lapideo : secondo i primi a Carrara sarebbero 4.800 (comprendendo chi opera nelle cave, nella lavorazione e nel commercio), mentre gli ambientalisti ritengono che siano solo 2.800. Un dato certo è che nel 1955 i soli addetti alle cave di Carrara erano 4.560 (fonte Reg. Toscana), ma nel 2012 erano calati a 1.000 (fonte Assindustria). E’ certo che la meccanizzazione ha comportato una forte riduzione di manodopera: oggi per manovrare nelle cave bastano poche persone, più i trasportatori. Ma la manifattura – un tempo fiore all’occhiello del carrarese – che fine ha fatto? “Esiste ancora, usa scanner e tecnologie di punta per prodotti di design, ma è un’eccellenza utilizzata come specchio per le allodole – continua Milani – in realtà i blocchi vengono sgrossati e tagliati a Carrara, e poi lavorati fuori, direttamente dal committente, in Cina, India, Arabia Saudita, perché costa meno”. “ La realtà carrarese si è ristrutturata, molte piccole aziende hanno chiuso, alcuni artigiani hanno smesso perché era troppo faticoso – ribatte Bencaster, la cui ditta è specializzata sulla ricerca di materiali storici – ma qui rimane una manualità esemplare. A Carrara non si può trovare lavorazione in quantità industriali, anche perché le cave producono più di quanto possa essere trasformato in loco”. Andrea Balestri, direttore dell’Associazione Industriali Massa Carrara, ha affermato recentemente in un’intervista a questo giornale che il 50% del marmo estratto viene comunque lavorato sul posto. Inoltre il fatturato 2013 della lavorazione è aumentato del 5% rispetto al 2012, sintomo di una crescente attività trasformativa . Ma di che tipo? “Gli artigiani dei laboratori dicono che se hanno bisogno di materiali, non riescono a trovarli, perché i blocchi sono venduti all’estero – controbatte Paola Antonioli, presidente di Legambiente Carrara – Altro che ‘filiera locale’, oggi il 70% dei marmi se ne va”.
Rendimenti eccezionali, costi risibili
Il dubbio che non ci sia molto interesse a sviluppare una filiera locale è rinforzato da vicende come quella della Omya, multinazionale svizzera che, dopo aver acquisito la ditta concorrente, i francesi della Imerys, l’anno scorso ha licenziato gli operai e chiusa la Massa Minerali, azienda di proprietà della Imerys attiva a Carrara nella lavorazione del carbonato di calcio. E’ vero che a partire dal 2005 i quantitativi di detriti portati a valle – in particolare le scaglie bianche – sono diminuiti. Eppure la stessa Camera di Commercio di Carrara – in uno studio sugli utili 2013 – parla di ‘performance incredibili’ nel settore dell’estrazione e proclama che in Italia non c’è un altro distretto così redditizio come quello del marmo a Carrara, “in cui ogni 100 EUR di fatturato si traducono in 16,5 EUR di utile netto”. Insomma, una ricchezza crescente spinta in alto dal prezzo del marmo, che si mantiene elevato perché la domanda supera l’offerta. Fatturati in aumento, utili alle stelle, rendimenti eccezionali a fronte di costi risibili: a Massa il Comune preleva solo 12 EUR a tonnellata per ogni blocco di marmo denunciato alla pesa (marmo il cui prezzo oscilla fra i 200 e i 3.000 EUR). Una tonnellata del materiale più pregiato – venduta sul mercato anche a 4.000 e più euro – porta oggi al Comune di Carrara 26 EUR di canone di concessione (se la cava è pubblica, altrimenti nulla) e 52 EUR di tassa estrattiva.
Un editto del 1751
Il rapporto fra enti pubblici e gestione del patrimonio marmifero toscano è decisamente anomalo: la situazione normativa è vischiosa, nei fatti si impongono ancora pratiche e consuetudini vecchie di secoli. A Massa ci si basa praticamente su una legge estense del 1846, secondo cui le cave sono in concessione perpetua, si possono vendere, subappaltare e lasciare in eredità, si riscuote un canone annuale risibile sulla base del reddito agrario. A Carrara – vero cuore del bacino – aleggia lo spettro della principessa Maria Teresa Cybo Malaspina, feudataria dell’impero, che nel 1751 attribuisce alcune cave ai privati : contrariamente al parere di molti odierni giuristi, quell’ editto sui ‘beni estimati’ viene ancora oggi usato per giustificare il fatto che 52 cave su 81 siano– in percentuale varia – private, e dunque paghino un canone di concessione ridotto, oppure non lo paghino affatto . Il Tirreno ha calcolato che il famigerato editto della Malaspina si traduce oggi in un risparmio di circa 4 milioni di euro l’anno per gli imprenditori , cioè di mancati introiti per le casse pubbliche.
Per mettere fine ad un sistema di concessioni praticamente perpetue e rendite esorbitanti, già nel 1994 la Regione Toscana decreta che le concessioni debbano divenire temporanee (max. 20 anni) e onerose, cioè i canoni debbano essere determinati in base ad un valore non inferiore a quello di mercato, e i concessionari debbano pagare una tassa proporzionale al valore del marmo estratto. Ma il governo Berlusconi blocca la legge, impugnandola davanti alla Corte Costituzionale. La quale però si pronuncia a favore della Regione. Così i Comuni si mettono (lentamente) in moto, rivedendo i regolamenti in modo da poter iniziare ad incassare qualcosa in più del ‘nulla’ di prima. A marzo di quest’anno, la Regione Toscana va oltre: in accordo alle normative europee, legifera che tutti gli agri marmiferi (inclusi i famigerati ‘beni estimati’) debbano essere considerati pubblici, e le concessioni per l’escavazione siano messe a gara. Questa volta a impugnare il provvedimento è il governo Renzi . Proprio come Berlusconi 21 anni fa. Che farà adesso la Corte? Nelle sue mani una partita decisiva per il distretto marmifero delle Apuane. “Se la Corte accoglie il ricorso governativo – spiega Marco Tonelli, responsabile dell’Ufficio Marmo del Comune di Carrara – e afferma la competenza dello Stato nella materia dei ‘beni estimati’, le cave resteranno private almeno fino alla promulgazione di una legge statale; ma a quel punto, anche il regime di gara pubblica potrebbe essere rimesso in discussione, per lo meno a Carrara”. Con ogni probabilità la legge regionale dovrebbe essere riscritta. Sarebbe la fine di uno sforzo durato vent’anni per regolamentare in modo più equo (ed europeo) il conflitto fra interessi collettivi e privati che da sempre domina il bacino apuano.
I Bin Laden sono sicuramente ben informati sui tira e molla della politica italiana (fra i consulenti più vicini l’ex sindaco Pd di Massa, Roberto Pucci) e dunque non si preoccupano più di tanto. Infatti mentre politici e lobbisti di casa nostra si baloccano con editti feudali del 1700, i sauditi – che gestiscono già 26 cave di marmo sparse nel mondo attraverso la Marble & Granite International Company – si sono messi a comprare enormi laboratori per la lavorazione del prezioso materiale, l’ultimo in Cina, nel 2013: sono 66.000 metri quadri di spazio costati 15 milioni di EURO – riporta la Saudi Gazette – per produrre fino a 400.000 metri quadri l’anno di pavimenti, mattonelle e decorazioni. Di che rifare alberghi ed aeroporti, e lastricare grattaceli e moschee. Con buona pace della filiera locale. Di Carrara.