Una donna a Palazzo della Signoria? Cosa mai vista. Quando nel 1540 Eleonora da Toledo, moglie del duca Cosimo I, entra nell’antica residenza del governo repubblicano per trasformarla in dimora ducale, a Firenze c’è chi scuote la testa: dai tempi di Dante quelle sale ospitano solo Gonfaloniere e Priori, una donna non vi ha mai messo piede. Ma le stanze private (e un po’ datate) di via Larga, non bastano più a contenere i sogni di famiglia: Eleonora e Cosimo hanno bisogno di nuovi spazi per le rinnovate ambizioni. Vogliono una corte da vivere e sfoggiare. Cosi traslocano armi e bagagli nel Palazzo ‘di Piazza’, ribaltano tutto, restaurano, abbelliscono. E riempiono di figli i terrazzi dell’ultimo piano. La Duchessa si prende l’appartamento del Gonfaloniere. Installandosi nel simbolo del potere, i duchi mandano ai concittadini un messaggio inequivocabile: addio esercizio discreto d’influenza personale, i Medici non sono più primi inter pares. Sono primi e basta. Il dominio ormai è assoluto.
Eleonora è una sovrana superba, scelta – come altre prima di lei – per il nome. Il padre, Don Pedro di Toledo, è vicerè di Napoli e luogotenente dell’imperatore Carlo V. Arrivando a Firenze, la ‘spagnola’ porta in dote ricchezze immense e parentele influenti, fondamentali per il consolidamento del nascente stato toscano. E porta anche una bellezza marmorea: don Pedro aveva deciso di dare a Cosimo la figlia primogenita, ma il duca insiste, vuole la seconda. L’ha già vista a Napoli, giovanissimo. Ne è rimasto stregato. Don Pedro cede, Eleonora arriva il 29 giugno 1538. E’ un matrimonio politico, diventerà un’unione di interessi. Ma si rivela – incredibilmente per i tempi – anche una solida alleanza di sentimenti.
Un (insolito) matrimonio d’amore
Capelli biondi, occhi azzurri, atteggiamento altero: ingioiellata e suntuosa, la duchessa si aggira per la città dentro una lettiga di velluto, senza mostrarsi mai, ‘come in un tabernacolo’. La sovrana si accompagna ad un seguito rigorosamente spagnolo (il Cappellone di S. Maria Novella ne è un lascito), ed è questa la lingua in cui continua ad esprimersi. Da principessa di corte destinata ad una reggia, Eleonora si sente un po’ stretta a Firenze. Ma nel privato, la duchessa è una “pavoncella con i pulcini”, solida padrona di casa, abile amministratrice, attenta ai figli. Cosimo ed Eleonora: una coppia a prova di maneggi extraconiugali. Lei sa come prenderlo, come mitigarne l’irruenza. Il duca la rispetta, le è fedele. Frequenti i viaggi insieme, le cavalcate, le cacce. I fitti scambi epistolari. Nei contratti privati, i due si vietano espressamente di disporre dei beni a favore di altri che non siano il coniuge o i figli. Insomma, un patto matrimoniale di ferro, su cui viene imbastito un progetto economico, oltre che politico e sentimentale. Cosimo ed Eleonora si amano.
Novemila fiorini per comprare Boboli
Durante le assenze del duca, il capo di stato è lei, che oltretutto fila d’amore e d’accordo con la suocera, Maria Salviati. Convinta cattolica (porterà a Firenze i Gesuiti), la duchessa si dedica alla gestione dell’ingente fortuna privata – propria e del marito – in particolare dopo che la guerra di Siena ha svuotato le casse ducali. E lo fa con una capacità straordinaria. Fra un figlio e l’altro (ne avrà ben 11) la duchessa commercia grano e concede prestiti, acquista case e fattorie, mette a coltura terreni paludosi e compra addirittura cartelle del debito pubblico fiorentino. Lo stesso duca prende in prestito dalla moglie quantità impressionanti di denaro. Sotto l’impulso di Eleonora il patrimonio di famiglia – da tempo logorato – lievita. Permettendo nuove spese. Dopo dieci anni a Palazzo della Signoria, i duchi decidono infatti di allargarsi: le stanze di fattura medioevale non diffondono sufficiente luce (principesca) né aria salubre. Ed è ancora una volta Eleonora a sborsare di tasca propria i 9.000 fiorini necessari all’acquisto del podere di Boboli: il fabbricato non ha ancora un tetto, non supera il primo piano. Ma la stoffa c’è. Cosimo chiama l’Ammannati, il Tribolo, il Buontalenti: l’edificio cambia aspetto, si avvolge di giardini e limonaie. Ancora una volta la famiglia ducale fa fagotto. Buona parte della parabola della storia fiorentina è simbolicamente racchiusa fra questi traslochi (di potere): dalla repubblica delle pietre bugnate di via Larga, al ducato degli affreschi del Palazzo di Piazza, al granducato dei saloni aurei di Palazzo Pitti.
Il mistero della morte dei figli
Da qui, Eleonora vede l’inizio della costruzione degli Uffizi; ma non vivrà abbastanza per il corridoio vasariano. Un ritratto del Bronzino (oggi a Berlino) ce la mostra stanca, affaticata. Soffre da anni di tubercolosi polmonare, ma ancor di più soffre per i figli: se la buona sorte l’ha favorita con le nozze, non si può dire lo stesso con la prole. Ha già dovuto seppellire cinque eredi, 3 ancora bambini, poi la figlia maggiore, Maria, colpita da malaria a 17 anni, e poi anche Lucrezia, probabilmente uccisa dal marito, il duca di Ferrara. Ma la catena dei lutti non ha fine. E’ il 1562: la duchessa segue Cosimo in Maremma, per ispezionare alcune fortificazioni. Con loro, Giovanni, Garcia e Ferdinando. Durante una sosta al castello di Rosignano, i tre ragazzi si ammalano di malaria: nel giro di un mese, prima Giovanni, poi Garcia muoiono. Sfiancata dal dolore, anche Eleonora si spegne, sei giorni dopo Garcia. Solo Ferdinando riuscirà a guarire (e a subentrare un giorno al fratello Francesco, il granduca). Ma una diversa versione di questa tragedia domestica – peraltro non avvalorata da documenti storici né dalle esumazioni – si diffonde presto in tutta Italia: Garcia, geloso di Giovanni, lo avrebbe pugnalato nel corso di una partita di caccia, e per questo sarebbe poi stato ucciso dal duca, irato per la perdita del figlio prediletto. Sia come sia, di dolore si muore: ed è quello che succede alla donna più potente di Firenze. Che oggi ci guarda immortale – forse anche triste – attraverso gli occhi del Bronzino, mentre appoggia un braccio su Giovanni infante. Promessa mancata di gioventù.
@danielacavini