Per i tedeschi è un pirata, gli americani non si fideranno mai di lui: ma alla fine è grazie al ‘monument man’ italiano che la Leda del Tintoretto o la Danae di Tiziano, rapite da Hitler, tornano a casa. E’ lui a mettere in salvo i quadri di De Chirico o l’Annunciazione del Beato Angelico. Eroe o spia, chi è Rodolfo Siviero? Un informatore fascista passato ai partigiani. Un cacciatore d’opere d’arte convertito in Ministro. Ma dietro al doppiogiochista allergico alla politica, c’è anche l’uomo che si indigna e reagisce ai soprusi. L’uomo capace di abbracciare l’arte sopra ogni cosa. “Molti sono i funzionari italiani artefici del salvataggio di migliaia di opere dalle ruberie naziste – commenta Attilio Tori, conservatore del Museo Regionale Casa Siviero – ed un documentario di Massimo Becattini, presto su Rai 3, rende giustizia all’opera di Pasquale Rotondi ed Emilio Lavagnino. Ma ciò che fa di Siviero un caso unico, è il profilo: non era un professore, né uno studioso, lo chiamavano ‘il soldataccio del SIM’, il servizio segreto militare. Però alla fine è lui a riportare a casa dalla Germania buona parte del nostro patrimonio”. Lui, il ruvido diplomatico che ama l’arte con la pancia, più che con la testa. E a cui non si perdonano le origini politiche.
Da critico mancato a spia
Figlio di un carabiniere, Rodolfo Siviero sogna di diventare un grande poeta, uno storico dell’arte. All’Università però non dà neppure un esame. Bussa ai giornali, pubblica un libro di poesie; ma non riesce ad affermarsi nel mondo della cultura. Eccelle invece nelle relazioni pubbliche: fin dalla giovinezza è accanito frequentatore del Caffè delle Giubbe Rosse, conosce Soffici e Annigoni, entra a far parte del cenacolo che ruota attorno al villino Serristori, casa del critico d’arte Giorgio Castelfranco, mecenate di Giorgio De Chirico. Nella bella abitazione in riva all’Arno, Siviero stringe rapporti col critico e il pittore: un’amicizia a tre destinata a dare frutti nel tempo. Quando nel 1935 i servizi segreti dell’esercito italiano (SIM) gli offrono una collaborazione, l’intellettuale mancato sceglie la via dell’azione. Sotto la copertura di una borsa di studio, viene infiltrato nell’Agenzia nazista di propaganda antiebraica, a Erfurt. “Mi mandano a fare l’antisemita, proprio a me…” scrive nei diari. A Erfurt osserva la confisca di beni ebrei da parte dei tedeschi: cosa utilissima di lì a poco. Perché il novello agente segreto non è un nazista, ed il disaccordo sulla politica razziale è alla base della sua rottura col regime italiano. Mentre le leggi razziali arrivano in Italia, a dicembre del ‘38 Siviero viene espulso dalla Germania: i tedeschi sospettano di lui, e così fanno i fascisti. Intanto Castelfranco – di famiglia ebraica – viene prima trasferito, poi licenziato. I figli fuggono in America, lui lascia la casa a Siviero. E’ il 1939: l’Europa è in fiamme.
Il detective partigiano
Di fronte alla prospettiva del conflitto, l’Italia si sforza di mettere al riparo il patrimonio artistico: interi musei vengono svuotati e le opere costrette ad interminabili viaggi su strade accidentate e camion scoperti, per raggiungere ville e fortezze sparse sul territorio, dove si pensa siano più sicure. Ma niente ferma la voracità di Göring e Hitler: per compiacere i potenti alleati, è Mussolini in persona ad autorizzare l’esportazione illegale di opere preziose. Già nel 1938 parte il Discobolo del principe Lancellotti, copia romana dell’opera di Mirone; nel 1941 se ne va il ‘Ritratto di Gentiluomo’ del principe Corsini, realizzato dal fiammingo Memling, quadro per cui Siviero sviluppa una sorta di ossessione. La razzia di capolavori scatena la reazione dell’ex agente segreto: se non può entrare nel mondo dell’arte da protagonista, può almeno ergersene a paladino. Diventa capo di un gruppo di antifascisti che passano informazioni agli alleati. Dal villino ceduto da Castelfranco – base operativa del nucleo clandestino – lo 007 trasformato in detective partigiano torna a spiare i tedeschi con i metodi appresi proprio in Germania, e raccoglie notizie per contrastare le requisizioni del Kunstschutz, l’ufficio nato per attivare l’esportazione illegale. Fra le pagine dei libri della biblioteca, Siviero accumula l’archivio segreto della Resistenza dell’Arte. La sua banda compie imprese spettacolari: ritira e mette al sicuro le vetrate del Duomo di Arezzo; batte sul tempo gli sbirri di Göring incaricati del prelievo di una Annunciazione del Beato Angelico; mette in salvo tutti i quadri di De Chirico dalla villa di Fiesole, usando uno stratagemma mentre lui e la moglie ebrea riescono a fuggire.
Un gioco pericoloso
Dopo l’8 settembre, il gioco si fa più duro. Lo spregiudicato investigatore decide di spendere l’antica reputazione per infiltrare i servizi segreti della Repubblica di Salò: in pratica, torna a lavorare con i fascisti passando però informazioni agli alleati. Nel maggio del ’44 questo suo spionaggio funambolico gli costa caro: viene arrestato, torturato e liberato in extremis grazie all’intervento di un superiore da Salò (anch’egli infiltrato). Adesso Siviero è definitivamente ‘bruciato’, niente più giochi: ormai è tempo di mettere a frutto l’archivio di informazioni sui saccheggi così pericolosamente raccolto negli anni. A cominciare dal pedinamento dei camion tedeschi che stanno trafugando a Campo Tures in Alto Adige migliaia di statue e quadri provenienti da tutta Italia, fra tutti il San Giorgio di Donatello e il Bacco di Michelangelo. Conoscere i nascondigli sulla via del Brennero, significa poter in futuro reclamare l’esistenza delle opere. Il gruppo di Siviero sa dove sono i depositi in Alto Adige. “Se vogliamo recuperare il patrimonio ci serve lui e nessun altro” dichiara Giovanni Poggi, Soprintendente alle Gallerie fiorentine, che pure non ama l’ex agente. Già dal dicembre del ‘44 il ‘monument man’ riceve dal Governo il compito di tentare di ritrovare quanto asportato dai tedeschi. “Nel 45 la nomina è ufficiale – scrive la storica Francesca Bottari in “Avventure e recuperi del più grande agente segreto dell’arte” – ma oggi sappiamo che il comando alleato continua ad indagare su di lui”. Il personaggio è ambiguo, oggetto di antipatie trasversali. Non si fidano, gli americani: essere stato spia fascista è un’onta che non si perdona. Ma la spregiudicatezza dell’ex agente è molto preziosa per l’Italia. Nel maggio del’45, a liberazione avvenuta, inizia la partita per il recupero del patrimonio nazionale. A Campo Tures gli Alleati cedono in fretta: i capolavori si trovano ancora in territorio italiano, vengono restituiti senza troppe storie. L’arrivo a Firenze del treno che riporta a casa il San Giorgio e il Bacco, è salutato da una folla esultante. Ma il difficile deve ancora venire.
Pugni sul tavolo con tedeschi e americani
Sarà l’azione capillare e testarda di questo detective dell’Arte, a favorire negli anni il rientro di almeno una parte del patrimonio scomparso: fin dall’inizio Siviero mette in atto una intelligence tesa a rinvenire i percorsi occultati, identificare le opere, e produrre tutti i documenti necessari a reclamarle. Un’operazione che non sempre avviene alla luce del sole, e non sempre con metodi protocollati. Nell’autunno del 46, Castelfranco e Siviero partono per il Central Collecting Point di Monaco, gigantesco deposito dove gli Alleati stanno accumulando i tesori razziati in tutta Europa. Obiettivo: negoziare la restituzione dei pezzi italiani trafugati dopo l’8 settembre. Producendo le prove dei furti avvenuti dopo l’armistizio, l’investigatore ottiene la restituzione del tesoro di Napoli, dai dipinti di Capodimonte ai capolavori dell’ Archeologico. “Queste opere erano state evacuate a Montecassino – spiega Tori – Ma all’avvicinarsi del fronte i tedeschi decidono di trasportarle in Vaticano. Casualmente lungo la strada, 3 dei 15 camion prendono la via di Berlino, a parcheggiano a casa Göring giusto in tempo per il compleanno del gerarca, nel gennaio del ‘44”. Ed è qui che nella torta con le candeline finiscono la Danae di Tiziano e la Madonna del Divino Amore di Raffaello, l’Apollo di Pompei e l’Hermes di Lisippo. Tutto questo Siviero recupera, riuscendo a far valere i diritti dell’Italia come se fosse stato un paese occupato al pari di Olanda o Polonia. Ma il vero capolavoro diplomatico è il rientro dei pezzi che i gerarchi nazisti acquistano con regolare contratto prima dell’8 settembre, quando l’Italia è ancora alleata. “L’ex agente riesce a dimostrare che le esportazioni sono avvenute in seguito a pressioni politiche – scrive la Bottari – ed in violazione delle leggi vigenti”. Lo scontro a Monaco è feroce: le richieste italiane esulano dal regolamento sulle restituzioni, i tedeschi non vogliono cedere, gli americani si trovano in mezzo, alcuni decisamente sospettosi del capomissione italiano (nel frattempo nominato da De Gasperi ‘Ministro plenipotenziario’) fra cui un celebre ‘monuments man’ come Deane Keller. Nonostante ciò, la rabbiosa determinazione del cacciatore di opere la spunta: nel 1948, 39 capolavori ricevono l’autorizzazione alla partenza. L’Italia si riprende – fra gli altri – i quadri di Tintoretto e di Rubens, il Discobolo Lancelotti e il Gentiluomo di Memling, dipinto-amuleto per Siviero, che vi identifica “il grande uomo del Rinascimento, per me il modello umano più alto nella vita”.
Dai nazisti alla mafia
Nel 1953, un accordo fra De Gasperi e Adenauer riporta in patria i capolavori ancora trattenuti al collecting point di Monaco: un gesto di buona volontà della nuova Repubblica Federale, che vuole emanciparsi dal passato. Ma il recupero del patrimonio artistico nazionale sarà per trent’anni il chiodo fisso dell’ex agente, che mai diventa funzionario – otterrà la pensione solo da morto, dopo averne fatta richiesta per anni – e che non perde occasione per denunciare l’incuria della classe politica in materia di beni culturali (a tutt’oggi sono circa 1.500 i capolavori italiani mai riaffiorati dopo il naufragio nazista). Nel ’63 Siviero vola a Los Angeles: gli è giunta voce che potrebbero esserci due tavolette con le Fatiche di Ercole del Pollaiolo, ed in effetti riesce a strapparle alle mani di un ex soldato tedesco, che a vent’anni di distanza sta tentando di smerciarle sul mercato antiquario americano. La caccia dell’uomo-recuperi continua, va al di là delle violazioni di guerra. Nel ’68, ritrova l’Efebo di Selinunte rubato dalla mafia a Castelvetrano sei anni prima. Nel 71, il Gentiluomo del Memling sparisce nuovamente da Firenze: l’ossessione per il quadro è tale da spingere l’investigatore a mettersi nuovamente in pista e da riuscire a recuperarlo, dopo indagini, polemiche, minacce di morte, e due anni di lavoro. Siviero scrive nel diario che prima di riportare il dipinto a Palazzo Pitti, lo fa sostare come ospite illustre a casa sua, nel villino acquistato da Castelfranco, lo stesso da dove aveva guidato le brigate partigiane dell’Arte (e oggi Museo donato alla Regione Toscana). Fra queste mura – come già avvenuto dopo il primo recupero – Rodolfo Siviero fa colazione vicino al Memling, quasi fosse un amico. Il quadro recuperato accanto al detective, il gentiluomo del Rinascimento accanto al paladino dell’arte che sognava di far l’intellettuale.
A Firenze qualcuno dirà che l’aveva rubato lui: per farsi pubblicità.