PISA – Un razzo esplode all’improvviso: il pulmino inchioda, quattro ceffi incappucciati si fanno largo a colpi di mitra verso i passeggeri del veicolo. Le voci salgono di tono, c’è chi grida, chi spara. Ma i movimenti lievi del cameraman – che immortala l’aggressione e la reazione delle vittime – svelano lo scopo didattico dell’apparente imboscata: siamo a scuola di guerra, anzi, di guerriglia. Niente più volontari allo sbaraglio, o attivisti fai-da-te. Oggi chi parte per una zona ad alto rischio – dove attacchi a sorpresa minano l’attività degli operatori internazionali – ha a disposizione un corso su come affrontare un interrogatorio, negoziare un rapimento o fare lo slalom fra mine e check points. Cooperanti o marines? Poco importa: l’imperativo oggi è prepararsi. Al peggio.
Se ti rapiscono? Parla con loro
La prima a tirare fuori l’idea di un corso di addestramento al pericolo, è stata la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, una lunga tradizione di impegno nella formazione internazionale. Insieme ai Carabinieri del Tuscania, la Scuola ha ideato HEAT (Hostile Environment Awareness Training course): 40 ore di lavoro intensivo per imparare a riconoscere le minacce di un ambiente ostile, ma anche le procedure per minimizzarle e – possibilmente – riuscire a cavarsela. Il target? Funzionari europei o delle Nazioni Unite, giornalisti e lavoratori umanitari, ma anche poliziotti o semplici studenti a caccia di una formazione che potrebbe facilitare future opportunità di lavoro. Per esempio Francesco Balucani, studente di Scienze Politiche a Bologna, reduce da una settimana di levatacce: “Sono qui per portarmi un po’ avanti mentre studio, questo corso è sempre più richiesto dalle istituzioni internazionali. Ieri sono stato ‘rapito’ da un gruppo di banditi – continua – la situazione era reale, mi sentivo molto teso. Ho cercato di mettere in atto quanto imparato: interagire con i rapitori, mantenere lucidità, carpire tutte le informazioni possibili sull’ambiente. Se mai dovesse accadere in futuro, almeno avrò un’idea di come potrebbe essere”.
Il corso ha riscosso un successo tale che dall’anno scorso tutti i quadri europei in partenza per zone di conflitto devono possedere l’attestato di partecipazione. Non solo. Da primo centro mondiale di formazione, la Sant’Anna è divenuta certificatrice per altre istituzioni, e oggi gli istruttori delle Nazioni Unite vengono a Pisa a imparare. Obiettivo: formare personale civile nell’arte di muoversi là dove gli stati collassano, i conflitti interni demoliscono il vivere comunitario, e le popolazioni rimangono ostaggio della violenza. Un’ impresa realistica? Oppure l’ennesimo tributo all’ossessione per la sicurezza che affligge il nostro tempo? Certo i terreni di guerra a bassa – o altissima – intensità non sono stati mai tanto numerosi, né così affollati. Se droni e alta tecnologia narcotizzano l’impatto della (nostra) violenza, non rendono certo più sicura l’azione di chi su quei terreni poi deve operare. “Il corso non è incentrato tanto sulla forza fisica, quanto sugli aspetti psicologici della violenza – afferma un altro dei partecipanti, Paolo Trippa, addetto alla sicurezza degli uffici regionali della FAO – Oggi abbiamo simulato una missione in territorio ostile, eravamo molto stressati, proprio come succede là fuori. Esercizi simili servono a familiarizzare con l’ansia, così quando te la trovi addosso, sai cosa fare. Le tensioni fanno uscire la personalità in modo brutale: nella nostra macchina c’era uno che vedeva pericoli ovunque, ‘Attenti lì, c’è una mina là’. Ma non c’era nulla. Un’altra diceva ‘state sbagliando tutto, state sbagliando tutto!’ … Anche questo è un modo per liberarsi della tensione. I carabinieri-banditi sono stati bravissimi a farci entrare nella parte, trasferendoci tutta l’emozione della propria esperienza diretta”.
Sempre più civili nei teatri di guerra
Il Tuscania ha 33 anni di attività sul campo: una capacità di intervento non comune – il reparto è schierato in Iraq, Afghanistan, Libia, Somalia – ma anche una grande pratica di lavoro con i civili. E’ dal 2004 che i carabinieri formano il proprio personale prima di imbarcarlo per l’estero, ma dal 2013 le porte delle caserme si sono aperte anche ai non-militari, che sono sempre più numerosi. E’ la grande novità di questi anni: missioni civili di dimensioni crescenti, che fanno seguito agli interventi bellici. Due mondi distinti, a lungo quasi ostili, ma oggi sempre più interrelati. Lontani i tempi in cui gli operatori umanitari non volevano neppure essere visti insieme ai soldati, perché le popolazioni non confondessero i reciproci obiettivi. Oggi le operazioni sono spesso contigue (ma anche ambigue), con soldati impegnati a distribuire viveri e attori umanitari scortati da carri armati. All’interno degli interventi civili, un numero di posti in continua ascesa è occupato dalla componente femminile. “L’impatto delle donne nel rispondere ai bisogni delle popolazioni è decisamente superiore a quello degli uomini – afferma il colonnello Antonio Frassinetto del Tuscania – Per questo l’ONU e l’Unione Europea, ma anche la NATO, in certi settori hanno incrementato la presenza femminile, che arriva a coprire il 65% delle posizioni”. Aurora Iglesias, funzionario della Commissione Europea nel ramo dell’Educazione, è in partenza per Baghdad: “Oggi c’è più paura, per questo la sicurezza è diventata una priorità. Prima gli Americani erano percepiti come ‘cattivi’ e gli Europei come ‘buoni’: oggi siamo attore politico considerato partner degli USA, dunque siamo ‘cattivi’ anche noi. Inoltre con la riforma della politica esteriore, l’Europa è divenuta più visibile, dunque più esposta. Serviranno davvero tutti questi corsi? Male non fanno, è importante imparare a immobilizzare una gamba rotta, a rimanere uniti nella fuga o ad attraversare un fiume con la macchina. Ma alla fine non si può pianificare tutto. C’è sempre l’imprevisto”.
Errori di manovra possono essere fatali
Imprevisto è una parola che non piace ai carabinieri del Tuscania, la cui motto è: pianificare. Quando si esce da una base o una struttura protetta – i luoghi dove ormai vivono asserragliati coloro che operano in zone di conflitto – la programmazione è ciò che minimizza i rischi di una missione. Significa non solo prevedere cibo, acqua e batterie per 2 giorni anche se si sta fuori solo 6 ore, ma soprattutto informare dell’itinerario chi si occupa della sicurezza, stabilire i tempi di percorrenza fra i vari punti da raggiungere, identificare eventuali zone sicure in cui rifugiarsi se succede qualcosa. “Quando usciamo dalle basi per recuperare qualcuno in difficoltà – spiega ancora Frassinetto – vediamo bene gli errori, i difetti di programmazione. Ancora oggi in giro c’è molta approssimazione e leggerezza”. Le regole per affrontare un check point – per esempio – sono precise, e molte cose possono andare storte se si trascura un ordine della polizia locale, o se si fa una manovra sbagliata. “Quando fu liberata Giuliana Sgrena a Baghdad – continua il colonnello – ci fu un errore nella procedura di approccio, che imponeva di seguire i segnali luminosi, rispettare la distanza di sicurezza e la velocità di accesso alla zona di controllo. Errori madornali che possono costare carissimo”.
(Foto per gentile concessione del Primo Reggimento Paracadutisti Tuscania)