Una preziosa scatola Belle Epoque imballata in un elegante involucro tardo rinascimentale: già il nome – Palazzo Grifoni Budini Gattai – evoca le contorsioni storiche, i passaggi di mano. Ma è nel corpo di fabbrica che si nasconde il racconto del tempo, in quel capricorno appollaiato sull’ingresso, o nelle rotaie infilate nei muri al posto delle travi.
E’ il 1563, e Ugolino Grifoni – uomo di fiducia di Cosimo I dei Medici, e responsabile dello strategico Ospedale d’Altopascio – chiama Bartolomeo Ammannati per un incarico speciale: deve buttar giù una serie di case acquistate ai Ricci, e tirar su un palazzo che obbedisca alla Firenze ideale progettata dal Duca. La zona è ancora periferica: ma l’occhio lungo di Cosimo ha chiara la potenzialità della basilica mariana. Tre sono i lati già completi della piazza, iniziati 150 anni prima dal Brunelleschi. Un’armonia conquistata a tappe, attraverso i secoli. Adesso manca il quarto lato, da sigillare con un palazzo d’angolo che cristallizzi il volto urbano della piazza più bella di Firenze. A gloria dei Grifoni ma anche – e soprattutto – dei loro padroni.
E l’Ammannati obbedisce: abbatte l’antica casa dei Ricci – proprio quella dove era nata Santa Caterina – tira su muri, porte, architravi. In facciata posiziona il simbolo zodiacale del Capricorno e la vela con la tartaruga, il ‘festina lente’, entrambi emblemi di Cosimo. Perché sia chiaro a tutti da dove soffia il vento che spinge la vela dei Grifoni. Passano i secoli, cambiano i salotti. Nell’800 alla stirpe del Grifo succedono i Riccardi, i Mannelli, gli Antinori; finché arrivano Leopoldo Gattai e il genero Francesco Budini, titolari di una ditta di costruzioni impegnata a piene mani nell’edificazione di Firenze (e poi Roma) capitale d’Italia. “Il palazzo costava 280.000 lire – racconta Francesco Budini Gattai – ma il mio bisnonno aveva fatto molti lavori per gli Antinori, e alla fine la spuntò per 180.000”. I soldi non sono un problema per i due imprenditori, nel cui palmarés figurano lungarno Torrigiani, il porto di Livorno e soprattutto la rete ferroviaria Firenze-Faenza, “orgoglio di famiglia – continua Budini Gattai – ma certo non ci aspettavamo di trovare rotaie, invece di travi, nei muri portanti del palazzo”. Sono gli attrezzi del mestiere (simbolicamente) sepolti là dove tutto ricomincia: è il 1890, i due imprenditori – chiusa la ditta – passano all’acquisto di terre e alla rifondazione della dimora di famiglia. Non più industriali, ora latifondisti: mossa contraria alla Storia, forse, ma in sintonia con le ambizioni dinastiche che vedono il nuovo emblema dei Budini Gattai ergersi accanto allo stemma dei Ricci e dei Grifoni, ai piedi di un maestoso scalone venuto a rimpiazzare le stanze rinascimentali. E’ il 1892: il meglio delle maestranze fiorentine è ingaggiato in un’operazione dall’altissimo valore artistico. Ai pittori Augusto Burchi e Giulio Bargellini è assegnato il programma iconografico del quartiere nobile, il ciclo delle arti, delle virtù. Siamo in piena Belle Epoque, periodo sazio di fiducia e ottimismo, con il mondo intento a danzare il can can e ubriacarsi di Art Nouveau. Su un pregiatissimo pavimento in cotto laccato, trovano posto contadini felici in una campagna fiorente: novella Arcadia ignara del Titanic dietro l’angolo.
“E’ questo pavimento che dovevamo proteggere: ma come?” Costanza Caraffa dirige la fototeca del Kunsthistorisches Institut (o ‘Kunst’), stazione di ricerca sulla Storia dell’Arte targata Max Planck, fra le più prestigiose del pianeta. Dopo anni di chiusura, nel 2009 è proprio il Kunst a portare nuova vita fra le sale vuote del piano nobile: per farlo, s’inventa un doppio pavimento flottante steso a difesa dei fregi dell’impiantito, ma capace soprattutto di ancorare le scaffalature senza danneggiare le pareti. “Sono 600.000 le fotografie del nostro archivio – spiega Caraffa – ma nel muro non c’è neppure un chiodo”. Neppure l’Ammannati avrebbe potuto far tanto.