“Uno di voi mi tradirà”: sulle pareti di San Salvi, va in scena l’Ultima Cena secondo Andrea d’Agnolo, detto del Sarto.
E’ il momento dell’annuncio: sconvolti dalla notizia, gli apostoli si interrogano, si scrutano l’un l’altro. Inchiodati in una compostezza smarrita. Gesù passa un pezzo di pane a Giuda, chiedendogli di sbrigarsi a fare ciò che la Storia vuole da lui. Il dramma inonda il cenacolo, l’ intensità tutta teatrale satura l’aria: l’impatto è tale che persino le soldataglie di Carlo V a caccia di bottino e di scempi, indietreggiano. Senza levare un dito sul capolavoro. Siamo nel 1530, è in atto l’assedio che segna la fine della Repubblica e consegna Firenze al principato mediceo. I soldati della coalizione imperial-papalina non esitano a fare terra bruciata tutto intorno, ma non si azzardano a toccare l’affresco, “una delle più belle dipinture dell’Universo” (Benedetto Varchi). La cui potenza spirituale continua a mietere vittime: fino a pochi anni fa, un ignoto ammiratore sostava per ore davanti al dipinto, suonando un flauto in segno di omaggio alla bellezza che ferma la guerra…
Sono i frati vallombrosani a chiedere al figlio di Agnolo il Sarto di dipingere l’ultimo convivio di Cristo con gli apostoli, nel refettorio della chiesa di San Salvi: è il 1511, Andrea si sta facendo largo nel panorama fiorentino grazie alla commissione del Chiostrino dei Voti, in SS. Annunziata. Del Sarto è un giovane pittore pieno di talento: comincia i lavori sull’arco centrale, dove ritrae 4 santi vallombrosani, le grottesche. E una Trinità a tre teste, omaggio alla forza e al persistere del pensiero savonaroliano in città. Poi – probabilmente per un contrasto che oppone la Congregazione al papato – il cantiere viene chiuso, l’opera s’interrompe. Devono passare 15 anni prima che l’artista ci rimetta mano. Quindici stagioni in cui le mezze-tinte diventano cangianti, la tecnica si affina, si ammorbidisce; le figure diventano “semplici e pure, bene intese, senza errori e in tutti i conti di somma perfezione” (A.Vasari). Raffaello lascia il posto a Leonardo.
E proprio su ispirazione del cenacolo milanese del Da Vinci, nasce il racconto psicologico di San Salvi; il film in cui l’annuncio del tradimento cala come una bomba fra i discepoli. Del Sarto raffigura Cristo solo al centro della scena, mentre lo sgomento corre lungo il tavolo: alla sua sinistra, il compagno prediletto Giovanni si protende verso di lui, quasi chiedendo ‘chi è, chi è quest’ uomo destinato all’inganno?” Gesù gli stringe una mano, con affetto: “È colui per il quale intingerò un boccone, e glielo darò”. E lui, il predestinato, stenta a crederci. Contrariamente alla tradizione dei cenacoli fiorentini, Giuda non è seduto da solo dall’altra parte del tavolo, non ha una borsa di denari che ne marchi l’infamia; non c’è un gatto che ne sottintenda la natura infida. A differenza del Ghirlandaio, del Perugino, di Andrea del Castagno, Andrea del Sarto – e i committenti Vallombrosani – collocano proprio accanto a Cristo il discepolo destinato al tradimento, smarrito come gli altri, il volto incredulo, la mano sul petto quasi a dire: davvero sono io?
L’ effetto è tale che i fiorentini restano stregati. Quando – dopo soli 3 anni, durante l’assedio – tutti gli edifici fuor dalle mura vengono demoliti per non avvantaggiare l’esercito imperiale, i picconi cittadini si arrestano davanti al Cenacolo. “ Per la sua sublime qualità - scrive il Varchi– fu risparmiato dai guastatori inviati dalla repubblica Fiorentina per distruggere gli edifici fuori delle mura”. La bellezza gioca strani scherzi. “Il primo a non avere il coraggio di buttarlo giù è proprio il popolo di Firenze – racconta la direttrice Cristina Gnoni Mavarelli – ma poi arrivano i soldati. E anche loro si fermano, non osano abbandonarsi alla distruzione. Cosa che faranno invece per un altro pezzo conservato qui al Museo, il marmo funebre di San Giovanni Gualberto, capolavoro di Benedetto da Rovezzano. Un’opera straordinaria, che viene selvaggiamente deturpata dalle truppe”.
Quando arrivano i lanzichenecchi, il bassorilievo per il monumento al monaco fondatore dei Vallombrosani è in lavorazione nel laboratorio del palazzo del Guarlone, attiguo a San Salvi. Da anni Benedetto scolpisce le formelle che narrano la storia del santo, la prova del fuoco, gli esorcismi, la pesca miracolosa. Un lavoro intenso e pieno di maestria, contro cui le armate del papa Medici Clemente VII e dell’imperatore tedesco si accaniscono, decapitando angeli e monaci, troncando braccia, amputando gambe. Ormai inutilizzabile – ma ancora forte di un fascino profondo – la scultura viene venduta nel 1562 all’Opera del Duomo, che poi ne cede 4 rilievi al Gran Principe Ferdinando de Medici. Solo nel 1930 le formelle entrano a San Salvi, dove sono oggi accolte in un allestimento che ricostruisce parzialmente il bassorilievo, mai terminato dallo scultore. E che sarà finalmente aperto al pubblico a Gennaio, con 25 frammenti di marmo, i fregi, i rilievi, gli stipiti con candelabri, e persino un tondo. Numerose le parti tutt’ora mancanti, mentre alcuni pezzi sono riemersi in collezioni private e sul mercato. “Negli anni ‘90 – spiega Gnoni Mavarelli – l’ antiquario fiorentino Giovanni Pratesi ha ritrovato due testine di monaci appartenenti a questo gruppo, e le ha donate al museo. Anche loro saranno presto esposte nella sala che contiamo di riconsegnare alla città ad anno nuovo”.
Il marmo funebre e l’affresco, l’opera sfregiata e l’opera intatta; quella che subisce la mano della guerra e l’altra che riesce a fermarla. Due capolavori un tempo connessi dal contesto, poi divisi nella sorte, oggi nuovamente legati in quella rete colma di significati chiamata Museo. Un luogo che ci ricorda quanto vitale sia il ruolo dell’arte nel dar forma alla città. E quanto questo nostro passato sia forte e fragile insieme. E bisognoso di futuro.