E’ un passaggio nascosto, una stradina acquattata fra le case per arrivare alla cappella di famiglia senza essere visti: il percorso segreto che collega Casa Martelli a San Lorenzo è pronto, e sarà aperto al pubblico il mese prossimo. Usato forse dallo stesso Michelangelo per sfuggire alla ‘prigionia’ della Sacrestia Nuova dove si nascondeva alla furia dei Medici (nel 1530), dopo secoli di oblio il cammino torna ad essere agibile. E’ l’ultimo tassello di un recupero che viene da lontano, da quel lontano 1998 quando – dopo aver riacquistato il bene dalla Curia fiorentina – i funzionari statali entrano a Casa Martelli.
Al loro arrivo, non trovano un asciugamano, nè una porcellana. Armadi e cassetti sono vuoti. Di tutti gli antichi arredi rimangono solo le ceste del cane, foderate di seta del ‘700. Molti i quadri per terra, altri sono scomparsi, insieme a ceramiche e stampe. La scena è desolante. Cominciata oltre cento anni prima ad opera della stessa famiglia, l’emorragia dei beni Martelli si arresta solo nel momento in cui il sigillo pubblico cala a proteggere ciò che resta dell’antico patrimonio, di quel bene comune oggi recuperato e offerto alla svagata attenzione del mondo. Casa Martelli, eredità stratificata dai secoli, semi-nascosta fra i vicoli del centro. Casa Martelli, scrigno identitario, tela preziosa tessuta sulla biografia di una storica famiglia fiorentina. Di una nazione tutta.
Antica genìa del patriziato cittadino, i Martelli approdano dalla Val di Sieve a via degli Spadai, a due passi dal Duomo. Dapprima compari degli Albizi, ribaltano l’alleanza schierandosi con Cosimo il Vecchio: sarà la loro fortuna. Prosperi all’ombra del potere mediceo, ne condividono le dinamiche, ne ingaggiano i corifei: Donatello in persona – ancora oggi immortalato nei soffitti del palazzo mentre lavora in bottega per il capostipite Roberto – forgia non solo il famoso stemma Martelli, ma anche il sarcofago oggi in San Lorenzo, e quel ‘David’ destinato a dar lustro nei secoli al casato (e che invece è finito su un piedistallo a Washington). Nel ‘500 è la giovane Camilla Martelli a far notizia, sposando l’ormai anziano Cosimo I: ancora i soffitti della Casa raccontano le nozze morganatiche osteggiate fino all’ultimo dai figli del granduca, che valgano alla sfortunata giovane – una volta divenuta vedova – la reclusione in un convento, e la pazzia. Ma è il ‘600 il secolo d’oro della famiglia: se le attività commerciali migliorano, quelle bancarie e finanziarie prosperano. Col matrimonio dei cugini Marco e Maria, tre gruppi di case vengono riuniti, diventando Palazzo: cinquemila solidi metri quadri privi di sfarzo, intrisi di una sobria bellezza domestica ancor oggi tangibile, tutta inserita nel quotidiano via vai del popolo di San Lorenzo.
Negli anni la dimora viene a più riprese restaurata, i saloni adornati con mobili e tappezzerie, la collezione arricchita di capolavori (in parte) ancora presenti. Antiquari e commercianti fanno tappa obbligata in via Zannetti, passano i Romanoff , si fermano i Demidoff, è un fluire d’opere d’arte, molte arrivano in eredità (come i paesaggi del ‘700 romano acquistati dall’abate Domenico Martelli) o in pagamento di debiti (famoso il caso del Marchese del Carpio, collezionista spagnolo andato in rovina per amore del gioco). Ma a partire dalla metà dell’800, le cose cambiano. Con l’Unità d’Italia e le sue leggi, in particolare le nuove tasse sulle proprietà fondiarie, la fortuna dei Martelli si sfarina. La famiglia non può continuare a prestare denaro, comincia la vendita delle opere d’arte: è così che il ‘David’ di Donatello atterra alla Washington National Gallery insieme al San Giovanni di Rossellino, mentre un Cigoli appare alla National Gallery di Londra e un Velasquez non si sa più dove sia. Molto viene ceduto. Molto rimane, più o meno conservato da chi tiene le redine della casata. Nel 1986, quando il ramo principale si estingue, l’ ultima dei Martelli – Francesca – lascia il Palazzo in eredità alla Curia fiorentina, vincolando la quadreria all’apertura al pubblico ‘almeno una volta la settimana’ . Ma è una custodia mal riposta. Per dieci anni in via Zannoni non entra nessuno, mentre escono arredi e vasellame, stampe e medaglie. Quando una ‘Veduta di Venezia’ di Van Lint viene identificata (e recuperata) sul mercato antiquario di Sotheby’s, per l’edificio storico e la collezione ad esso legata scatta il vincolo d’insieme. Niente più trafugamenti, quel patrimonio non solo non può essere diviso, ma è tale proprio perché cucito al contesto, tessuto della materia stessa di cui è fatta la storia dell’edificio, della famiglia. Della città tutta.
La vicenda si chiude nel 1998 con una curiosa partita di giro innescata dal cosidetto ‘nodo Bardini’: per far diventare bene pubblico la collezione del famoso antiquario Stefano Bardini – soddisfacendo la volontà testamentaria del figlio ultimo erede, che imponeva allo Stato l’acquisto di una o più opere d’arte – il Ministero compra lo stemma di Donatello (per 17 miliardi di lire) da una Curia che in cambio, cede anche il Palazzo e il suo contenuto. La Casa diventa Museo. Un lavoro minuzioso ne rigenera l’impianto originario, ripristinando pavimenti, pareti, antiche volte. Per l’illuminazione ci si appoggia a lampade ottocentesche. Smontando un controsoffitto riaffiora il dipinto ‘Amore fra fedeltà e temperanza’, forse oscurato in seguito allo scandalo delle (false) nozze fra il nobile Marco Martelli, erede della casata a metà ‘800, e la bella Teresa Ristori, disconosciuta dopo 7 anni di matrimonio e tre figli…
Quanto al prezioso stemma di Donatello, approdato in mano pubblica trasloca (ma ce n’era davvero bisogno?) al Bargello; mentre fra salotti e quadreria, restano – stavolta in bella mostra – i pannelli nuziali del Beccafumi e le tele di Luca Giordano, la ‘Congiura di Catilina’ di Salvator Rosa e l’ “Adorazione del bambin Gesù” di Piero di Cosimo… Uno spazio di storia e di bellezza è recuperato alla collettività. Che adesso deve solo imparare ad amarlo.