Non ha avuto figli (legittimi), ma un messaggio da lasciare al mondo sì: “Ho superato la Natura con la mia Arte. Non ho ascoltato i tanti invidiosi che mi assediavano lungo il cammino. Ho fatto quello che sapevo fare: accettatelo…. “ . Eccolo, il testamento di Giorgio Vasari: dipinto sui muri di casa. E’ dalle pareti della dimora in Borgo Santa Croce, che l’anziano maestro si rivolge ai posteri: un paio d’anni prima di morire, l’artista si dedica con vigore ad affrescare le stanze con quello che può a tutti gli effetti definirsi un lascito spirituale. La strenua difesa della propria opera.
E’ il 1570, e la bramata corona granducale è appena atterrata sulla testa di Cosimo. Vasari ha speso l’esistenza a lavorare per la gloria dei Medici; sente la vita sfuggire, vuole “lasciar fama”, combattere la voracità del tempo. Da anni ormai abita nel bel palazzo confiscato dal duca all’avversario politico Niccolò Spinelli. L’artefice dell’apoteosi di Cosimo I aveva chiesto varie volte una casa, un posto tranquillo da dove poter servire meglio le ambizioni medicee. Inizialmente Cosimo nicchia: forse vuole metterlo alla prova, essere sicuro di potersi servire del suo talento per portare a compimento l’opera di glorificazione della casata, e sua personale. Ma Vasari non gli dà pace, torna alla carica con la storia della casa.
Nel 1557 il duca cede: gli concede l’ex dimora Spinelli, prima in comodato, poi di proprietà. L’artista è alle prese con Palazzo Vecchio: deve progettare e decorare l’enorme Sala dei Cinquecento, affrescare gli appartamenti dei Medici; c’è poi la fabbrica degli Uffizi, un intero quartiere da buttar giù per tirar su la nuova sede delle Magistrature; e dietro l’angolo si affaccia il Corridoio… E poi le tele, i dipinti; e le ‘Vite’ da riscrivere. Insomma, casa Vasari à una fucina; da Borgo Santa Croce, il maestro raggiunge in fretta tutti i cantieri. Questa bella dimora a tre piani – con tanto di atelier per apprendisti e aiutanti – è il segno tangibile del suo successo: nella Firenze del secondo ‘500 pochi nobili possono permettersi un alloggio altrettanto signorile.
Insieme all’amico e consulente, il priore Vincenzo Borghini – da sempre suggeritore di invenzioni e allegorie – nel 1572 Vasari mette a punto un programma iconografico pari a quelli che per tutta la vita gli sono stati commissionati. “I due scelgono Plinio e la sua Historia Naturalis per esaltare le virtù dell’artista trionfante sulla natura e sull’invidia – spiega Elisabetta Nardinocchi, direttrice del Museo Horne, da cui dipendono oggi le visite a Casa Vasari – Inutile dire che il maestro si sente l’ideale discendente dei pittori dell’antichità”. Eccoci dunque nel Salone Grande – l’unica parte della casa sopravvissuta ai rimaneggiamenti delle epoche, ai cambi di proprietà, all’aggressione del tempo. Sulla parete di fronte al caminetto, spicca la storia di Zeusi, il migliore pittore della sua epoca. Racconta Plinio che i cittadini di Crotone – per arricchire il tempio di Giunone – fanno venire Zeusi, affinchè dipinga la dea con le fattezze della più bella fra le donne. L’artista chiede quindi come modelle le fanciulle più avvenenti della città, ne sceglie 5 e di ognuna dipinge la parte più pregevole: creando così la bellezza perfetta. Sul muro di casa, Vasari immortala a destra l’arrivo delle ragazze accompagnate dalla nutrice; a sinistra, in mezzo alle modelle che si spogliano e rivestono, dipinge se stesso come Zeusi al lavoro. Il messaggio è chiaro: in natura il meglio non esiste, solo l’Arte può plasmarlo. E’ un po’ la teoria di Platone (ripresa dalla speculazione neo-platonica rinascimentale): solo l’artista può fissare il proprio sguardo interiore su un prototipo, un’idea di bellezza che manca alla Natura, e che lui invece custodisce in profondo, nello spirito. In definitiva, dalle pareti del salotto Vasari celebra se stesso e la propria vittoria sulla materia.
Ma è nella seconda storia che il messaggio si fa più diretto e personale: “Sul muro a destra entrando – spiega ancora Nardinocchi – Vasari ritrae il pittore Apelle, che era solito nascondersi in bottega per ascoltare i commenti della gente. Una volta un calzolaio fa notare un errore nella scarpa di una dea, e quella notte stessa l’artista corregge il dipinto. La mattina dopo il calzolaio torna, e, orgoglioso del proprio effetto sull’artista, si mette a criticare una gamba. A quel punto l’irato pittore salta fuori dal nascondiglioed esclama: ‘Ciabattino, non andare oltre la scarpa!’”. Vasari – novello Apelle – si raffigura nascosto dietro ad un quadro, nel momento in cui il ciabattino punta il dito: ovvio il riferimento alle tante critiche che accompagnano la trionfante carriera del corifeo della corte medicea. E chiara la risposta: state al vostro posto, o invidiosi, e occupatevi di ciò che vi compete.
Illuminante la scelta di Apelle: si dice che, per tenersi in esercizio, il pittore di Alessandro Magno non lasciasse passare neppure un giorno senza tirare una linea. E non era forse questo l’atteggiamento di Vasari, sempre con un dipinto per le mani, pronto a movimentare nuove opere, ad aprire nuovi cantieri? E ancora: Apelle disprezza il perfezionismo. “L’eccesso di diligenza nuoce”, diceva. E’ la risposta a coloro– ed erano tanti – che accusavano Vasari di essere troppo veloce, ripetitivo, di schivare il pathos. Di non fare gli sforzi necessari a ricercare una qualche originalità. Ma come chiedere a Vasari di essere un Michelangelo? Questo elegante interprete di cicli decorativi era quello che era: grande (e primo) storico dell’arte, architetto raffinato, incomparabile esecutore della mitizzazione di un regime. Ma anche cortigiano compiacente, come lui stesso scrive nell’autobiografia con cui si accomiata dalla vita: «Avendo fatto quello che ho saputo, accettatelo volentieri; e da me non vogliate quel ch’io non so e non posso, appagandovi del buono animo mio, che è e sarà sempre di giovare e piacere altrui».