NEW YORK – Una favola alla rovescia. Un Re Mida che accumula sacchi d’oro e la principessa sua figlia che si rinchiude a giocare con le bambole in una torre solitaria, staccando assegni per assicurarsi l’affetto del mondo.
Huguette Clark, multimilionaria erede del Re del Rame William Clark, scampata per poco al naufragio del Titanic ma anche al crollo delle Due Torri, muore nel 2011 a New York. Ha 104 anni. Si spegne fra infermiere e avvocati nell’anonima camera dell’ospedale dove si era auto-reclusa vent’anni prima, pur godendo ottima salute e possedendo castelli, palazzi e appartamenti sulla Quinta Strada completamente sfitti, per un valore di oltre 300 milioni di dollari.
La guerra giudiziaria scatenatasi sul tesoro di questa eccentrica vecchietta finisce con l’accordo per una fetta di torta da parte di tutti i pretendenti: i 19 lontanissimi tris nipoti (così lontani che Huguette non l’avevano neppure mai vista), l’infermiera (che accudendola si era già messa in tasca oltre 30 milioni di dollari), il contabile (pregiudicato sorpreso ad adescare ragazzini su Internet), l’avvocato (che aveva già accaparrato l’eredità di un precedente cliente), il medico (che aveva tentato di estorcerle 125 milioni a favore dell’ospedale), l’assistente personale… e via circuendo.
Una storia che sembra scritta dallo sceneggiatore di Downtown Abbey, se non fosse per il puntiglio giornalistico con cui Bill Dedman e Paul Clark Newell ne anatomizzano la trama in ‘Dimore Vuote’ (Neri Pozza, 2015). Una storia che – cavalcando quasi 200 anni di epica a stelle e strisce attraverso migliaia di documenti, atti giudiziari, testimonianze – rievoca nascita e morte di una immensa fortuna, accumulata nell’era facile e permissiva della Corsa all’Oro. Ma anche parabola (triste) del Sogno Americano e di certe sue ricadute sulla fragile psiche dei milionari di seconda generazione, che l’accumulo in salotto di Stradivari e Cartier, Monet e Cézanne, non riesce a mettere al riparo dalla vita.
Gli anni ruggenti da Re Mida
Huguette Marcelle Clark è figlia di William Andrews (detto W.A.) Clark, cercatore d’oro approdato al Senato americano da barone delle Ferrovie: uomo spregiudicato negli anni in cui la Nuova Frontiera ha bisogno di treni. W.A. è l’introverso secondogenito di una schiatta di 11 figli : nasce nel 1839 in una casa di legno perduta nelle campagne della Pennsylvania, capelli rossi e occhi color acciaio, cresce da mandriano, senza disprezzare qualche buona lettura. All’inizio della Guerra Civile, Clark non corre ad arruolarsi, bensì a cercare oro: e anche se poi diviene celebre come il ‘Re Mida’ arricchito in miniera, in realtà i primi successi li colleziona come venditore di uova. Nell’estate 1863, infatti, mentre sudisti e nordisti si massacrano a Gettysburg, W.A. smercia tabacco, stivali e farina ai minatori di Bannack, in Montana. Come in tutte le corse all’oro, ha capito che sono i commercianti ad avere le migliori possibilità di riuscita, non i minatori. Così, sfuggendo al gelo e alle frecce indiane, compra e rivende freneticamente, spende un dollaro e ne guadagna venti. Ma che fare del denaro? Lo dà in prestito. E da droghiere si fa banchiere. Tira su un palazzotto a Butte, sempre in Montana, e sposa Kate, amica d’infanzia e madre dei suoi primi 7 figli. Con i soldi della banca acquista 4 concessioni di rame dal valore incerto, che ovviamente si rivelano un colpaccio e lo fanno ricco. Anzi, ricchissimo. Siamo a fine secolo, c’è un intero mondo da sfamare d’energia. Lampadine, telefoni, cavi telegrafici, tutto si muove grazie al rame. Le fonderie Clark – le cui esalazioni all’arsenico produrranno uno dei più gravi disastri ambientali del nord ovest – riversano sul conto corrente del banchiere 11 milioni di tonnellate del prezioso minerale. Leggenda narra che agli immigrati in cerca di lavoro venga detto: ‘Non fermarti in America, tira dritto per Butte”. Ma che fare del denaro? Nuove miniere in Nevada, una immensa piantagione di caffè in Messico. E soprattutto, un tronco di rete ferroviaria che leghi Los Angeles – all’epoca ancora un borgo – a Salt Lake City. Nasce la Clark Road, anello mancante nella rete dell’Ovest, forse unico esemplare al mondo di ferrovia completamente finanziata dalle tasche di un solo individuo. Quelle (capienti) di W. A. Clark. Che fra una puntata in fonderia e una in banca, percorre l’Europa in lungo e largo a caccia di opere d’arte da collezionare. E’ la ricchezza come sistema di pensiero.
Operazione Las Vegas
Qualunque cosa tocchi, ovunque vada, W.A. trova nuove opportunità di investimento. La Frontiera americana è generosa con chi sa sognare in grande. Nel deserto del Nevada, la Clark Road ha bisogno di una base per fare manutenzione, immagazzinare acqua e combustibile. Gli uomini di W.A. comprano 50 ettari abbandonati dai mormoni: un anno dopo, Clark divide l’appezzamento in 1.200 lotti e lo mette all’asta. Inutile dirlo, farà una fortuna: il villaggio ferroviario innalzato su quel pezzo di deserto si chiama nientemeno che Las Vegas, capitale mondiale del gioco d’azzardo. Alla domanda ‘cosa fare del denaro’ stavolta Clark non ha dubbi: si compra un titolo da senatore. Beh, diciamo che lo conquista, ma è costretto a lasciarlo quando si scopre che ha distribuito bustarelle per ottenere il seggio. Però tiene duro e si fa rieleggere. “Non ho mai comprato nessuno che non fosse in vendita” dirà di quegli anni. Di diverso parere lo scrittore Mark Twain, che dipinge Clark come un essere “marcio e disgustoso, vergogna della nazione, più adatto al carcere che al Senato”. Nel 1904, a 65 anni, vedovo con figli ormai adulti, senatore e secondo uomo più ricco d’America dopo Rockfeller, W.A. Clark scandalizza il mondo politico annunciando di avere una figlia di 2 anni e di essersi sposato segretamente in Francia con una donna di 39 anni più giovane. La nuova sposa è Anna La Chapelle, figlia di un affittacamere di Butte, da tempo studentessa di musica a Parigi in qualità di ‘protetta’ del senatore. Timida, senza ambizioni sociali (né certificato di matrimonio documentato), Anna sbarca a New York nel 1908, tenendo per mano le figlie: Andrée e Huguette.
Quel viaggio mancato sul Titanic
Venuta al mondo a Parigi mentre il senatore dà battaglia sulle riforme ambientali di Roosevelt, Huguette ha la stessa età (e lo stesso padre) di Las Vegas. La bambina vive a New York nel fiabesco Palazzo Clark, 121 stanze fra cui cinque gallerie d’arte, fatte erigere dalla fame di prestigio che incalza il genitore. Rampolla di un’elite metropolitana affacciata sul nuovo secolo con ingordo ottimismo, Huguette vede nascere l’Empire State Building dalla finestra. Scuole esclusive (ha anche Isadora Duncan come insegnante), vacanze in Europa, regali principeschi, l’infanzia di Miss Clark scivola sfacciata sull’euforia tipica della sua èra e classe sociale. La famiglia Clark ha in tasca il biglietto per la seconda traversata del Titanic, contro il cui viaggio inaugurale si infrangeranno gli iceberg d’orgoglio e miopia di un’intera epoca. Quando perde per meningite l’amata sorella, Huguette si scopre sola: di una solitudine destinata ad abitarla fino alla fine. La ragazza non socializza, snobba le compagne. Troppo orgogliosa? Troppo ricca? O forse solo prigioniera di una torre, come Raperonzolo, la protagonista della sua favola preferita? W.A. Clark muore nel 1925, lasciando 4 miliardi di dollari nelle incapaci mani dei cinque figli viventi. Che impiegheranno un niente a sfarinare il patrimonio. Fra le altre cose, Palazzo Clark in Fifth Avenue viene demolito e rivenduto: è troppo costoso da mantenere. Quando la grandiosa scalinata di marmo dell’atrio principale non riesce a trovare un acquirente, l’oggetto è caricato su una chiatta e scaricato in mare. Stessa fine per un meraviglioso organo da 120 mila dollari (dell’epoca), che non potendo essere estratto dai muri del palazzo, viene fatto a pezzi e gettato in una palude nel Queens. Fine dell’età dell’oro.
Prigioniera della torre
Intanto Huguette si infila in un breve (e mai consumato) matrimonio con un amico d’infanzia. A quell’evento – nel 1928 – risale l’ultima foto dell’ereditiera: stretta nella pelliccia, solito giro di perle al colle, bracciali di diamanti e smeraldi Art déco Cartier, sguardo smarrito. Dopodichè della figlia del Re del Rame la società perde le tracce. Huguette dipinge, manda fiori, scrive biglietti. Ma si tiene a distanza. Prima con la madre, poi – dopo la sua morte – da sola, si rinchiude in uno degli appartamenti sulla Quinta Strada, in cui la vita sfugge lieve, fra matinée e pomeriggi musicali. E’ spaventata dalle novità, vive nel timore di essere rapita, oppure “che scoppi una nuova Rivoluzione Francese”. La sua cerchia sociale sembra popolata soprattutto da persone stipendiate, come se non riuscisse a impostare rapporti senza comprarli. Continua a coprire di regali – e assegni da 20mila dollari a botta – coloro che lavorano per lei. E’ molto generosa: dalla vendita di un Cézanne ricava abbastanza per acquistare e donare 4 rarissimi Stradivari, e far nascere il Quartetto Paganini. A 55 anni ancora si diverte con le bambole antiche: la sua collezione ne vanta quasi 1.200, per un valore di 2 milioni di dollari. Per vestirle commissiona abiti di raso a Christian Dior ; a ebanisti e falegnami europei chiede case in miniatura, col tetto in cedro giapponese, per ambientarvi le sue fiabe preferite. Non fuma, non si trucca, non invecchia. Una fata madrina. Una cometa. Sopravvive a tutti i suoi medici, e anche a tutti i suoi dipendenti. Non fidandosi di nessuno, non assume altro personale e rimane sola, in un appartamento di 45 stanze, abbarbicata alla sua torre: strappando assegni per tutti, circa un milione di dollari l’anno in regali e donazioni. Quando viene ricoverata al Doctors Hospital, nel 1991, sembra una barbona: denutrita, disidratata, un tumore al viso. Ci rimarrà per vent’anni, anche dopo essere perfettamente guarita, rifiutandosi di tornare in una delle sue meravigliose – e vuote – dimore. Saputo di ricevere nel testamento ‘solo’ un milione di dollari dalla sua paziente più generosa, l’ospedale la trasferisce in una brutta stanza, dove Huguette morirà, vicino ad un ripostiglio, senza vedere il cielo, né tantomeno l’Empire State Building. Ma solo uno sgraziato condizionatore.
@danielacavini