ROVERETO – Droni che rovesciano morte guidati come videogames, gole tagliate, confini che saltano, carri armati in marcia. La Terza guerra mondiale è già in atto? Forse è la Prima a non essersi mai chiusa. Forse la Grande Guerra 1914-2014 non è solo il (sotto)titolo di una mostra che il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea (Mart) inaugura a Rovereto il 4 ottobre, con allestimento firmato Martì Guixé e titolo preso in prestito da Brecht: “La guerra che verrà non è la prima” .
E non lo è infatti. Veniamo da millenni di variazioni belliche, in cui il genio dell’uomo si è arrovellato a servizio della distruzione. L’idea stessa della guerra suona oscenamente familiare. Non incidente, ma opera umana. Tempo sospeso in cui ogni diritto svanisce e ogni sopruso è autorizzato. In tempi di rievocazione del primo conflitto mondiale, il Mart esplora (l’idea del)la Guerra. Coniugando reperti e opere d’arte per narrare l’inconcepibile che non è alle nostre spalle, che non ci abbandona. Cento anni di una narrazione mai interrotta, iniziata sulle trincee del Carso e continuata attraverso le risaie vietnamite e i formicai palestinesi, i villaggi bosniaci e le sbarre di Abu Ghraib. Per dire che il Male non è unico, e non è finito. Una narrazione nutrita dai momenti comuni della Danza Macabra, i corpi oltraggiati, le lettere dal fronte, la propaganda e la tenerezza che hanno segnato l’ultimo secolo della nostra umanità. Un progetto appassionato, curato da un folto gruppo di esperti d’arte, storici, scrittori. Un racconto parziale, come qualsiasi racconto della complessità. Non un inventario di guerre. Piuttosto la declinazione delle cicatrici di una stessa ferita. Simbolicamente allestita sulle macerie dell’esposizione precedente, in cui erano i paesaggi a portare lo sfregio inferto dall’uomo.
“La guerra che verrà non è la prima” è una esposizione non gridata. Che piazza pudicamente in bacheca, rifiutando di appenderle ai muri, le facce devastate dei mutilati, les gueles cassées. Che non indugia nell’allestimento teatrale e rinuncia al buio per sedurre. Passando in rassegna il Male senza diventare commemorazione. La giovane direttrice del museo Cristiana Collu conferma: “Non volevamo mettere in mostra la guerra per dire: guardate, ecco l’orrore, ma non ci appartiene perché è passato. Il disumano fa parte di noi, se non ci prendiamo questa responsabilità, non riusciremo mai a superarlo”. Ma di fronte all’orrore, cosa può fare l’arte visiva? “Può solo ammutolire, e dunque il nostro è un balbettare impacciato. Ma alla fine del percorso si intravede la luce. Perché non tutto è già deciso e forse siamo noi quelli che possono ancora cambiare le cose”.
Affondati nel fango
La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Un racconto non emotivo bensì empatico, quello del Mart, in cui la narrazione della Guerra – quasi mille i materiali esposti, fra opere, foto, film, video e installazioni – s’intesse al riverbero che la Storia ha avuto nell’arte. Ecco così i lavori di Mario Sironi e Marc Chagall, Gino Severini e Fortunato Depero, Giacomo Balla e Arturo Martini, (e molti altri) intrecciati ai frammenti di vita estorti al tempo, la materialità di uomini e donne rimasti intrappolati nel volto della Medusa: diari e lettere, ma anche gavette e cartucce. Soprascarpe di paglia restituite dallo scioglimento dei ghiacci.
Il primo conflitto mondiale domina la proposta del museo, con i suoi fanti laceri, i ragazzini sbattuti al fronte, le donne catapultate nel ruolo di capofamiglia. Le cicatrici delle montagne. La potente installazione di Paolo Ventura (Il Reggimento che va sotto terra) parla di loro, dei militi ignoti, quei milioni di muti, anonimi protagonisti spazzati via a manciate nelle trincee o affondati nel fango, senza identità, senza spazio per il lutto né il ricordo. Ventura non ha esitato a fotografarsi 300 volte in pose diverse eppure uguali: sono 300 i soldati-Ventura consumati dalla marcia, che passo dopo passo, metro dopo metro, si inabissano docili nel nulla. Molti soldati non condivideranno questa sorte, torneranno con gli arti mozzati. La conflitto, col suo impasto di vecchie tattiche da combattimento, nuove tecnologie e competenze chirurgiche, è stata “la più grande officina di mostri della storia” (Rocco Ronchi). Inghiottita dalla fabbrica della guerra, la carne da cannone della migliore gioventù europea è stata sputata come cadavere, o come scarto. A migliaia i mutilati sciameranno senza pace nel dopoguerra, facili prede dei fascismi nascenti. Forse salvati, ma incapaci di raccontare la tragedia dei sommersi. E ancor meno la propria.
Guerra, igiene del mondo
La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. In tutte, orrore e fascinazione. L’inconfessato sentimento che la battaglia in fondo inebria, ha un suo potere seducente. Nessuno lo sa meglio del futurismo italiano, il cui grido per il rinnovamento artistico sfocia in una vera apologia della guerra “sola igiene del mondo” (Tommaso Marinetti, 1911). Parole in libertà cui fanno seguito i fatti, talvolta i pentimenti. Dopo aver invocato il conflitto a caldi toni, da Marinetti a Depero, da Boccioni a Bucci partiranno per le trincee, con esiti alterni. In sprezzo al pericolo, Marinetti scrive a casa che gli si facciano arrivare torte al fronte. Anche da ferito, disegna volantini e continua a dirigere la strategia interventista del gruppo. Tra i titoli più ricorrenti nelle sue lettere di soldato è Zang Tumb Tuuum, capostipite del libro d’artista. Riviste satiriche, riviste politiche. Anche il gruppo di Lacerba è per l’intervento. In mostra, i capolavori delle avanguardie dialogano con la propaganda. La guerra si nutre (anche) del proprio racconto, si regge su una Causa popolata di nemici assetati di sangue ed eroici soldati pronti al sacrificio. “Fate il vostro dovere”, “Date il vostro denaro”. “Calpestate il nemico”. La vera sorpresa sono le donne, rimaste sole mentre gli uomini sono impegnati a uccidere. Sono loro a prendere in mano le redini della società, scoprendosi forti. Intanto, al di là della Gloria, c’è il disastro.
Il boia che ride
La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Sempre quella, la povera gente. Che si taglia, si brucia, si spara per non tornare in trincea. Il racconto del Mart tocca le emozioni, ma non le chiama costantemente in causa, non sollecita lacrime. Con l’unica eccezione forse di Cesare Battisti, l’irredentista trentino immolato dagli austriaci con una spettacolare esecuzione pubblica. Volontario nell’esercito italiano, Battisti è catturato nel 1916 durante l’avanzata nemica sul Monte Corno. Al termine di un processo-farsa, il suo martirio è accuratamente orchestrato dal governo e dato in pasto alla stampa perché lo trasformi nell’atto catartico di cui la dilaniata società trentina ha bisogno per allentare odi e divisioni, e resuscitare uno Stato moribondo. Malmenato dai carcerieri, dileggiato dalla folla, il ‘bastardo traditore’ viene cosi offerto in sacrificio sotto l’occhio avido degli obiettivi, che ne immortalano l’ultimo viaggio verso il boia. L’ impiccagione di Battisti a Trento – documentata in tutti i drammatici passaggi – diventa evento mediatico in cui anche il corpo esanime del soldato è esposto al pubblico ludibrio, sotto lo sguardo ridente del boia-buffone. Lungi dal rivelarsi quella riaffermazione di sovranità di cui gli austriaci avevano bisogno, l’esecuzione si volge invece nell’inizio della fine. “La propaganda nemica – scrive l’austriaco Karl Kraus nel 1922 – non ha nemmeno bisogno di fotografare i nostri misfatti perché, con sua grande sorpresa, trova le nostre fotografie, dei nostri fatti, sul luogo stesso del delitto”. Italiani, guardate e imparate a odiare! – titola “Il Popolo d’Italia” del 23 febbraio 1918, pubblicando a tutta pagina la foto dell’impiccagione. “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo” (Salvatore Quasimodo)
Stivali di paglia
La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori, faceva la fame la povera gente egualmente. E devono averne fatta i soldati di guardia a Punta Linke, appostati fra le rocce del gruppo Ortles-Cevedale a 3,700 metri di altitudine. Per decenni il ghiaccio ha custodito la loro baracca, e da qualche anno lo scioglimento delle nevi ci sta restituendo – intatta – l’umana quotidianità della Guerra che lì dentro abitava. Sono elmetti e valigie, coperte e posate, cartucce e stivali; centinaia di reperti per la prima volta visibili proprio al Mart. Ci sono anche le protezioni di paglia usate dai soldati per ripararsi dal ghiaccio, soprascarpe di fieno secco capaci di evocare come nient’altro la fragilità dei giorni, il freddo delle notti, l’eternità dell’attesa passata a scrivere o ricordare. La guerra è un mestiere che tutto esige. Forse nulla più dei reperti di Punta Linke offre la profondità di quel sacrificio. Di quell’esperienza di solitudine, di disordine e perdita che la nostra civiltà non riesce ad archiviare, perché di essa si nutre. Finiscono i giri di giostra, ma il meccanismo – per ora – non è disattivato.
Daniela Cavini