GENOVA – Può servire Picasso per parlare di Alzheimer? Da qualche anno a Palazzo Ducale fare cultura significa uscire dalle discussioni teoriche (e dai salotti) per creare spazi e relazioni in grado di ascoltare i migranti, affrontare la dispersione scolastica, fronteggiare le secche delle periferie. Parlare di diritti umani. Tutto questo a colpi di creatività ed attività educative. Accanto alle grandi mostre, a Munch e a Van Gogh, le porte del Palazzo della Cultura cittadina si aprono ogni anno per una missione educativa di riscatto sociale, prima ancora che civile. Per la creazione di cittadini, e non di semplici spettatori, o clienti. A chi si affaccia nelle sale di piazza Matteotti viene offerta una pluralità di percorsi senza pari in Italia: 358 eventi solo nel 2014, fra seminari, festival, conferenze. E poi atelier per bambini e concorsi di creatività per giovani, laboratori per anziani e lezioni in cui i genitori fronteggiano il coraggio di educare. Tutto a ingresso libero. Quella di Genova è una scommessa in cui pubblico, privato e volontariato si danno la mano senza inchinarsi al dio mercato, ma tenendo sempre d’occhio il bilancio. Un patto in cui la cultura funziona perchè diventa elemento sociale, e gli incontri riescono perchè la gente impara. In cui la qualità è davvero alla portata di tutti.
Aperti anche a Natale
Il nuovo Beaubourg d’Italia è una fucina in cui lavorano 30 persone, ma ognuno sembra fare per tre. Accessibile ai disabili in ogni suo spazio, aperto 365 giorni l’anno (incluso Natale) dalle 7 a mezzanotte, Palazzo Ducale si pone come luogo di confronto, offrendosi alle programmazione di 110 realtà del territorio, sia culturali che di solidarietà: uno spazio civico inclusivo che rinuncia al ruolo di protagonista assoluto, per diventare casa comune, in cui ognuno porta un pezzo di sé, da Sant’Egidio a Limes, dal CAI ad Amnesty, dai Circoli dei lettori agli Amici dei musei. E i numeri danno ragione all’esperimento, fortemente appoggiato anche dall’amministrazione comunale. Oggi il Palazzo raccoglie oltre 500.000 presenze l’anno, di cui 250 mila paganti: e poiché la capitale ligure conta 580.000 abitanti, è come se (quasi) ogni genovese passasse per le stanze dell’ex Tribunale almeno una volta l’anno. La chiave di questa popolarità? “Rendere visibile l’utilità della cultura. Ma anche applicare una terza via fra chi pensa che la cultura debba generare profitto, e chi ritiene che sia un disastro economico” spiega il presidente Luca Borzani. “Invece far quadrare il bilancio è uno degli aspetti del fare cultura pubblica; ma avere attenzione al bilancio non significa che il sistema debba essere quello del business. Certo – continua – dobbiamo confrontarci con la logica del mercato, altrimenti le esposizioni non reggono: e se dovessimo vivere di sole entrate pubbliche, non ce la faremmo. Ma la cultura vista come elemento sociale mitiga il rigore dei conti, anzi, lo guida: perché da noi il progetto gestionale è al servizio di quello culturale”.
La conoscenza contro il male di vivere
Qual è dunque questo progetto? Liberare la cultura dai grovigli teorici (e un po’ snob), farne un elemento di contrasto ai disagi del nostro tempo, mettendola al servizio della società, producendo partecipazione e coesione sociale. Ma anche abbassandone la soglia di accesso, agevolandone la fruizione da parte di tutti – giovani in testa – con una attenzione ai più deboli, alla terza età, agli stranieri. Perché la cultura perde quando non guarda in faccia la realtà. O quando pensa che far crescere il PIL sia più importante del coltivare lo spirito. “E’ vero che dobbiamo tutelare e valorizzare il patrimonio – afferma Borzani – ma se non si costruisce conoscenza, vuol dire che le cose non vanno”.
Così a Genova la passione per la conoscenza diventa antidoto – senza biglietto d’ingresso – al male di vivere. A Palazzo Ducale infatti si paga solo l’accesso alle mostre, le attività sono (quasi esclusivamente) ad entrata libera: una gratuità connessa al fatto che in gioco ci sono risorse pubbliche. L’offerta è ampia. C’è la zona riservata alla creatività giovanile, con bandi aperti a tutti, e progetti artistici selezionati da una giuria indipendente: nel 2014 oltre 300 artisti under 35 e 11 mila appassionati sono stati coinvolti in un programma articolato su linguaggi diversi, dalla scultura al teatro, dalla fotografia alla musica elettronica. C’è lo spazio dedicato alle malattie della demenza senile – aperto tutti i giorni grazie a volontari di alta qualità fra cui ex docenti universitari e ricercatori – in cui 4.000 persone sono arrivate in 2 anni, impazienti di mantenere attivo il proprio cervello. La Sezione Didattica è uno dei settori di punta del Palazzo, e gode di uno staff stabile di storiche dell’arte oltre ad una ventina di collaboratori esterni fra artisti, musicisti, scienziati ed educatori. Ogni anno circa 40.000 studenti (di tutta Italia) frequentano le attività: laboratori, percorsi e progetti speciali sono studiati in relazione agli eventi o alle mostre in corso, per stimolare bambini e ragazzi ad un approccio creativo al mondo dell’arte. Perché imparare, in fondo, è un’esperienza. E poi accanto ai ‘Sabati per le famiglie’ – con atelier per bimbi dai 5 agli 11 anni – la domenica è la volta dell’Università dei genitori, che a centinaia si incontrano per confrontarsi sulla complessità della sfida. E sono duemila gli studenti coinvolti nel progetto attivato insieme al Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e alla Comunità di Sant’Egidio, in cui gruppi di migranti affrontano gli studenti per raccontare la propria storia. E ancora i festival come La Storia in Piazza (28mila presenze nel 2014) o Genova Legge; i cicli di incontri, le conferenze e gli eventi speciali che solo nel 2014 hanno visto passare 160.000 persone. E via dicendo, in una girandola di inventiva e partecipazione. Di cultura oltre i limiti, capace di coniugarsi con il sociale. E di rendere davvero collettivo uno spazio monumentale pubblico.
Da carcere a piazza culturale
Così il numero delle presenze ha preso il volo. E dire che questo Palazzo non è mai stato amato dai genovesi: costruito nel medioevo, ampliato nei secoli per alloggiare il Doge, già a fine ottocento ospita uffici pubblici, mentre la torre e il sottotetto continuano a richiudersi su dissidenti politici in catene. Sede del carcere – ma non del Consiglio Comunale, affidato a Palazzo Tursi – la fortezza non cattura mai il cuore della città, che sembra battere altrove, soprattutto nelle principesche residenze dell’aristocrazia commerciale, poi finanziaria. Quando nel ‘900 i grigi saloni dell’edificio vengono riconvertiti in Tribunale, corridoi pieni di spifferi tagliano a pezzi l’antica sede istituzionale. Il cortile è praticamente inaccessibile, i genovesi attraversano le stanze cariche di storia guardando altrove. C’è scarsa simpatia fra pietre e popolo. La svolta arriva nel 1992: con le Colombiane il prestigioso spazio pubblico – ristrutturato – è riconsegnato ai cittadini. A 500 anni dall’occupazione delle Americhe, il monumento si offre alla colonizzazione da parte della locale comunità civile. Le celebrazioni segnano anche un cambio di direzione per Genova, metropoli industriale alle prese con i presagi della crisi, ma sulla strada di un’autentica vocazione culturale. Il passato municipale offre contenuti importanti, bisogna però rimetterli in piedi, ricostruirne l’anima. Parte l’operazione di riqualificazione: affidato a Renzo Piano, il porto antico riprende vita, e il mare è restituito alla metropoli. I grandi palazzi cittadini – sede dell’orgoglio civico – si rianimano, Strada Nuova si popola di musei. Sono i finanziamenti del 2004, anno europeo della Cultura, a consolidare un’identità sempre più smaniosa: arrivano il Castello d’Albertis e il suo museo etnografico, la galleria d’arte contemporanea e quella moderna di Nervi, le collezioni d’arte dei Fratelli Frugone e i ‘Rolli Days’ (l’apertura dei Palazzi Storici). La città, il territorio tutto rispondono alla sfida. In questo contesto, nel risanato Palazzo Ducale si identifica la possibilità della rinascita civile. L’ex Tribunale, oggi piazza della cultura cittadina, si offre come punto di forza di un sistema che – affiancando un apparato industriale in declino – sostiene la Genova culturale, turistica, high-tech, capace di legare sviluppo della conoscenza e crescita economica. Ma come funziona davvero questa alleanza pubblico-privato- volontariato ?
Contorsioni budgetarie
Il Palazzo è retto da una Fondazione a (stragrande) maggioranza pubblica: ne fanno parte Comune e Regione, insieme a qualche privato ‘no-profit’ come le fondazioni bancarie di Compagnia San Paolo o Carige, con quote partecipative minime. Una struttura che non ha dividendi da distribuire, ma il cui bilancio è – ed è sempre stato – in pareggio. Sotto una regia pubblica – sostenitrice di un’idea di cultura come servizio – agiscono poi vari soggetti privati, tutti esterni: nel 2014, hanno coperto il 34% dei costi delle attività, per lo più organizzando mostre. Sono ‘sponsor’ evidentemente mossi da considerazioni di utile , ma la loro attività consente di ospitare eventi importanti che Palazzo Ducale non potrebbe altrimenti permettersi. E anche di concentrare il resto del budget sulle attività gratuite. “Chi scommette su una mostra, affronta un rischio imprenditoriale, e lo fa sperando in un ritorno economico: credo sia normale – spiega Borzani – Ma se le cose vanno bene, ci guadagniamo tutti. Se le mostre funzionano, tutti hanno un ritorno”. E come la mettiamo col rischio ‘mostrificio’? Un occhio al programma, ai cataloghi, allo sforzo divulgativo, fa pensare che l’impresa commerciale non necessariamente escluda quella intellettuale: Robert Doisneau e Edvard Munch, Frida Kahlo e Diego Rivera, Nickolas Muray e Robert Capa…. Poche concessioni alle mode del momento, molto rigore esplicativo. “Anche i privati lo hanno capito: non c’è redditività senza qualità, il passa-parola funziona più di ogni altra cosa per il successo di una mostra. E poi, qui non parliamo di spettatori abbrutiti, ma di cittadini educati al patrimonio”. Ultimamente le difficoltà dell’imprenditoria hanno ridotto l’impegno privato, mentre le assottigliate risorse pubbliche fanno fatica ad assicurare le spese di gestione (67% del totale), costringendo il Palazzo a contorsioni budgetarie e a sponsorizzazioni invadenti. Ma anche a interessanti capriole innovative, che Borzani racconta così: “Ci siamo adattati alla riduzione di finanziamenti riformando la nostra offerta, senza cedere sulla qualità: in fondo, risorse identiche tendono a far riproporre le stesse cose, mentre un calo di sovvenzioni può essere combattuto a colpi di sforzi creativi. Non si dà luogo della cultura che non sia capace di innovazione su se stesso. Certo, al di sotto di una certa soglia non si può comunque andare ….”.
Insomma, forte regia pubblica, privati virtuosi , ma anche volontari in abbondanza: il sistema messo in pista a Palazzo Ducale riesce ad operare anche grazie alle caratteristiche del territorio, quei saperi tradizionali importanti, quegli anziani colti, pur di tradizione operaia, infastiditi dalla politica e riversati nella cultura; o quei curatori di fama internazionale, disponibili a rimboccarsi le maniche e mettersi in gioco. La ricetta è questa, significa porte aperte, orari allungati, funzione sociale di un progetto di qualità accessibile a tutti, ma non inchinato agli interessi privati. In un paese in cui si è sempre alla ricerca di un modello sostenibile di rapporto con la cultura, vale la pena farci un pensiero.