FIRENZE – C’è l’Amazzonia, ci sono le Montagne Rocciose. E c’è la Campagna Toscana.
Se il paesaggio è il prodotto della storia, da noi la lotta per domare il territorio si è conclusa con una seducente vittoria dell’uomo. Ma le cose ultimamente stanno cambiando. Basta uscire dalle città e fare due passi: la Natura si sta letteralmente divorando la Civiltà (agricola). In un secolo abbiamo perso in Toscana il 35% circa di diversità del paesaggio rurale. Se tutti sanno del cemento che avanza, pochi pensano all’assenza dell’uomo come causa dell’imbarbarimento del territorio. Dal 1929 ad oggi in Toscana, abbiamo abbandonato 413.000 ettari di terre coltivate, e ne abbiamo guadagnati 375.000 di boschi. Che si fanno sempre più vicini, più folti. Più aggressivi. E così gli animali che li popolano, i lupi che arrivano a Pomarance (Pisa) a mangiarsi le galline. Ma se lasciamo libero spazio alle foreste in nome della Natura, siamo davvero amici dell’ambiente?
L’ecologia, un mito ‘straniero’ – Mauro Agnoletti, docente di Storia dell’Ambiente e Pianificazione del territorio agricolo e forestale all’Università di Firenze, è convinto di no. Alfiere di un paesaggio agricolo che torni alle origini, Agnoletti invoca la riconquista e coltivazione di terreni lasciati oggi all’arbitrio di una crescita non governata delle selve. “Se dico che i boschi sono troppi, risulto totalmente impopolare. Eppure – afferma – è quello che succede. Succede che in cento anni abbiamo abbandonato la metà dei terreni agricoli, che oggi importiamo più del 50% dei cereali dall’estero, che solo in Toscana abbiamo accumulato 12 milioni e mezzo di euro di danni da ungulati dal 2005 al 2011 (dati Regione Toscana). Ma se indicessimo un referendum chiedendo alla gente se è d’accordo nel ridurre i boschi e rimettersi a coltivare la terra… ebbene lo perderemmo subito. Perché?”
La questione è in primo luogo culturale: abbiamo instillato nell’anima (e in parte anche nel sistema normativo) l’immagine della Natura come bene incontaminato, messo a rischio dalla distrofia delle attività umane. Ma è un modello importato, che non ci appartiene. Attenzione: nessuno mette in discussione inquinamento o scempi ambientali. Il punto è che per millenni i nostri contadini, produttori di paesaggio, hanno modellato la Natura per generare utilità e bellezza. Goethe a Stendhal, Dickens a Chateaubriand ci hanno celebrato per questo nella storia. Ma a fine ‘800 – nato in Germania e irrobustito negli USA – il mito dell’ecologia è sbarcato anche qui. Confondendo le grandi praterie, il selvaggio west, la Foresta Nera, con colline e terrazzamenti di casa nostra. Da noi già i Romani bonificavano e plasmavano la terra, per creare quel giardino d’Europa tanto apprezzato. Dove l’agricoltore lega la vite all’acero dopo avergli dato una forma, perché lo fecero gli etruschi per primi, e c’era un motivo. Cos’è il paesaggio agrario, in fondo, se non cultura creata dall’uomo che produce? “Se in un bosco blocchiamo il pascolo o il taglio – continua Agnoletti – le piante non mangiate dagli animali toglieranno luce e aria agli alberi esistenti. E svilupperanno foreste inaccessibili”.
La nostra bellezza? Gli altri se la inventano – Insomma, il nostro paesaggio rurale ha origini antiche, e va preservato per salvaguardare l’ambiente e la biodiversità. Ma anche perché vi è intimamente connessa la parte più importante del cesellare umano sul territorio: quella produzione agricola, alfiere del nostro nome nel mondo. Da sempre in Italia basiamo la nostra identità sul cibo e sulla qualità del territorio che lo genera: tanto più il paesaggio è bello, tanto più è unico, tanto più consente di farsi spazio sul mercato. Un valore aggiunto che spinge in alto i nostri prodotti tipici, dal vino all’olio, dagli insaccati ai formaggi. E non solo. Dagli anni ’90 al 2013, la capacità ricettiva del settore agrituristico è aumentata del 367% (dati Regione Toscana). “Ci sono agronomi italiani – conclude Agnoletti – assoldati a Napa Valley in California per ricreare falsi oliveti terrazzati. Lo scopo? Aumentare le vendite”. Una bellezza altrove ricreata, a noi regalata dal lavoro agricolo nel tempo. Non dovremmo forse preservarla ed investirci?
Il passato che ci lega al futuro- Discorso non semplice per i nostri imprenditori agricoli: i terrazzamenti tradizionali costano più dei moderni agglomerati nutriti di tecnologia. Ma quella fra innovazione e conservazione sembra oggi una falsa antitesi: guardare al passato potrebbe invece avvicinarci al futuro. E al tempo stesso promuovere quella diversità (bio)culturale dei paesaggi – oggi a rischio – da tempo allo centro dell’attenzione della comunità internazionale. Che nel novembre scorso proprio da Firenze – per bocca dell’ICOMOS, l’organismo dedicato alla conservazione di siti e monumenti – ha ribadito con forza: il paesaggio in cui l’uomo vive è portatore di cultura, è patrimonio di tutti. Va preservato. I diritti della Natura devono trovare un equilibrio con quelli (sacrosanti) dell’essere umano e delle sue attività. Insomma, potrà non valere per Canada o Svezia: ma il modello fornito dal paesaggio rurale toscano è la ricetta da seguire per lo sviluppo sostenibile di realtà densamente popolate, come quella Toscana. E come tale, auspica ICOMOS, dovrebbe essere sostenuto dai legislatori. Forse qui non c’entra più il cemento, e neppure il marketing: semplicemente, si tratta di non tornare al neolitico.
@danielacavini