Da ‘spedale’ per i poveri del Medioevo a museo di quartiere del Duemila: la parabola di San Sebastiano dei Bini – perla rinascimentale affacciata su via Romana – è racchiusa fra queste due identità. Nel mezzo c’è di tutto, la cappella di famiglia e la pelletteria, passando per la sala di musica. Vero e proprio archetipo delle metamorfosi forgiate dalla Storia nelle pietre cittadine, il Museo è oggi sede di preziose opere d’arte, che qui erano nate e che qui sono state riportate dopo il travaglio dei secoli. Ma un’ombra si affaccia sul futuro: “Non ci sono più volontari – afferma Gianfranco Rolfi, parroco di San Felice da cui dipende l’oratorio – Possiamo aprire solo su richiesta”. Dopo tante battaglie, anche questo spicchio di patrimonio sembra smarrire la funzione di memoria civica, di tessuto vivo riconquistato dopo decenni di oblio.
Quando anima e corpo si curavano nello stesso posto
Lo spedaluzzo nasce come sede fiorentina di quello ‘spedale’ di Santo Spirito in Saxia che Innocenzo III – il Papa della Crociata contro i Catari e dell’Inquisizione – vuole a Roma. Siamo a cavallo fra il 1100 e il 1200, le eresie sono all’attacco, la Chiesa incoraggia la predicazione dei francescani e dei domenicani, e moltiplica le strutture di accoglienza dove “si ristorano gli affamati, si vestono i poveri, si amministra il necessario agli infermi e ai forestieri”. Sono addirittura 9 gli spedali che si affacciano su via Romana: accolgono anche i pellegrini diretti a Roma, non a caso è proprio l’asse via San Gallo-via Romana a tagliare in due Firenze, segnando il transito verso la capitale. Uno stemma di pietra sopravvissuto in facciata, evoca ancor oggi questo passato fatto di templari e spitalieri, di crociate e pellegrini. Di cure somministrate all’anima e al corpo negli stessi luoghi, con le stesse intenzioni.
La rivoluzione dei Bini: lo spedale diventa cappella di famiglia
Il tempo passa, dopo un centinaio d’anni anche lo spedaluzzo ha bisogno di cure: nel 1290 sono i soldi del lascito testamentario di Folco Portinari – padre della famosa Beatrice – a rimetterlo in sesto. Agli inizi del 500 entra in scena Bernardo Bini, tesoriere dei Papi. I Bini sono un’importante famiglia di mercanti, dispongono di favolose ricchezze, fra cui un intero quartiere in via Romana. E’ proprio Bernardo ad accorpare le vecchie case e costruire un palazzo (lo stesso poi acquistato dai Torrigiani e trasformato nel 700 nella ‘Specola’ da Pietro Leopoldo). E’ sempre lui a mettere gli occhi sullo spedale di fronte a casa, chiedendo il privilegio di poterlo trasformare in cappella di famiglia. i lavori vengono affidati a Baccio d’Agnolo, l’archistar del momento. La dedica a San Sebastiano, protettore dei malati di peste, richiama l’antica funzione spedaliera. Ed è a questo periodo che risale la maggior parte dei capolavori, fra cui l’opera più importante, e dalla vita più inquieta: l’ancona di Baccio d’Agnolo.
La Madonnina trafugata e ritrovata alla mostra dell’antiquariato
Nella sua splendida intelaiatura, Baccio riunisce tavole di periodi diversi, mettendo al centro una Madonnina dell’Umiltà seduta per terra, ritratta col bimbo che le tira il velo, donna fra le donne, opera dei primi del ‘400 di Rossello di Iacopo Franchi. Maria e il suo bambino spariscono nel 1931: per 40 anni il tabernacolo rimane orfano della parte centrale, con i Santi Bernardo e Pietro ai lati, in adorazione di una Vergine contumace. Ma nel 1971 ad una mostra internazionale dell’antiquariato, Antonio Paolucci identifica la Madonna trafugata. Sequestrata e restaurata, la pala riprende l’antico posto all’interno del tabernacolo, fra Bernardo e Pietro. Pronta a soffiare nuova vita fra le mura dell’ex oratorio, che nel tempo ne ha viste davvero di tutti i colori.
Le mille identità, da sala prove per musicisti a laboratorio
Fra il ‘600 e il ‘700 la cappella dei Bini apre infatti le braccia a varie congregazioni, ospita i Vanchetoni (che andavano ‘cheti’, silenziosi, piegati sotto i loro cappucci), accoglie l’ordine di San Filippo Neri (prima che vada a S. Firenze), passa ai Monaci della Certosa. Ma sono le soppressioni napoleoniche del 1808 a decretare la dispersione delle opere e il capovolgimento degli spazi che – nella seconda metà del 900 – vengono destinati alle attività più varie, da luogo di prova per i musicisti dell’Orchestra Regionale Toscana fino a manifattura artigiana per la lavorazione della pelle. E’ il 1996, quando un parroco determinato – aiutato dalla Cassa di Risparmio di Firenze – decide che è tempo di restituire al quartiere un pezzo di memoria. E di rimettere in piedi l’antica cappella, ripopolandola di opere originarie. “Dietro gli oggetti che noi ereditiamo c’è la storia di un’intera comunità, la storia dell’uomo – spiega don Rolfi – Se perdiamo le nostre radici, non siamo più nulla”.
Così un’antica nicchia riaperta torna ad ospitare il S. Sebastiano di Leonardo del Tasso, terracotta dipinta cui fanno ala una Maria Maddalena e un San Giovanni realizzati da un tardo Botticelli (o dalla sua scuola). E torna uno splendido crocifisso di bottega donatelliana – anche lui ‘contadino’, dolente, piegato dal dolore. Un Cristo più vicino all’uomo che a Dio, e ancora lontano da quella controriforma che gli imporrà di non soffrire, di quasi non morire, per solo risorgere… “C’è anche un capolavoro di Giovanni Bilivert – commenta Marcella Cangioli, presidentessa dell’Associazione ‘Città Nascosta’ che da due anni apre l’oratorio alle folle di ‘Corri la Vita’ – E’ un angelo custode del ‘600 che invita all’accoglienza: simbolo dell’antica funzione, ha un messaggio quanto mai attuale”.
“Non ce la facciamo più, non ci sono volontari”
Riscoprire, ricostruire, aprire le porte: è l’arte che dà forma ai cittadini, è un museo del territorio a riprendere vita grazie allo sforzo della comunità. Che oggi però non ce la fa più: “Inizialmente aprivamo tre pomeriggi a settimana, poi abbiamo ridotto al sabato, adesso anche quello non è più garantito: d’altronde – conclude don Rolfi – in una città senza più abitanti, ansiosa di trasformare tutto in oro, i quartieri vivono ormai di turisti e studenti stranieri”. E il patrimonio fa sempre più fatica a svolgere la sua vera funzione, quella di bene comune. Palestra di cittadinanza.