Sono gente di ‘popolo’: contadini, commercianti. Banchieri. Storia dei Medici, così italiani prima dell’Italia. Usano la leva dei prestiti e quella dei matrimoni per risalire la china sociale e trasformarsi in casa regnante; dominano 300 anni di vita politica di un regno, condizionando il futuro di una nazione ancora frammentata in staterelli ambiziosi. Storia dei Medici, la più longeva e monumentale famiglia del Bel Paese divenuta dinastia europea: da lunedì su Rai Uno, una mega-produzione internazionale spolvera addirittura una star a stelle e strisce, Dustin Hoffman, per vestire i panni del patriarca Giovanni de Bicci, fondatore della casata. E per venire a narrarci – in modalità fantasioso-fuorviante – la storia di quei mercanti divenuti duchi e approdati ai gradini più alti d’Europa. Che regalano a Firenze un futuro, una città ideale al mondo.
Sono i Medici, generosi e magnifici, ad impostare il rapporto fra finanza e cultura, fra carte di credito e arte. La splendida stagione dell’animo umano chiamata Rinascimento si nutre tanto del genio, quanto dei profitti da usurai dei Signori di Firenze. E sono ancora loro, dissoluti e sanguinari, a procacciarsi corone, stole cardinalizie e toghe papali a colpi di lettere creditizie (quando non di arsenico). Avidi collezionisti, non belli né particolarmente sani, irriducibili funamboli del potere: all’inizio della parabola, non si concedono il tempo di alzare la testa dai libri contabili. Tre secoli dopo, l’ultimo sovrano non riesce neppure a trascinare il corpo piegato dalla sifilide fuori dal letto. Un’involuzione che solo la lungimiranza di una donna – interdetta al trono – riesce a salvare dal tracollo finale.
Le radici del potere – Oscuri commercianti provenienti dal Mugello, i futuri regnanti approdano in città verso la fine del ‘200, in un territorio privo di materie prime, ma da sempre capace di usare le mani per forgiare il mondo. E’ il ‘secolo d’oro’ (1250-1340 circa): il fiorino brilla a livello internazionale, e l’invenzione di cambiali e lettere di credito – denaro che produce denaro – conferisce all’Italia il monopolio della neonata finanza europea. E’ anche il secolo in cui Giotto soffia vita nelle pitture di Santa Croce, e Dante inventa inferno e paradiso popolandoli di concittadini che parlano in volgare. Firenze – capitale mondiale dell’industria tessile – è ricca e fiera, ha il doppio degli abitanti di Londra e un PIL pari a quello d’Inghilterra; governo e Arti investono in chiese ed edifici pubblici. E’ “la repubblica più repubblicana che il mondo abbia mai visto” (Umberto Dorini), con migliaia di abitanti in grado di accedere a rotazione ad un ufficio di governo. E’ in questo tempo che i Ghibellini – famiglie nobili ex feudatarie – perdono per sempre la partita contro i Guelfi, ‘grassi’ rappresentanti di mercanti e imprenditori, provenienti dal contado e trasferiti in città. E’ il nuovo che avanza, facendosi chiamare ‘popolo’. Alla fine del ‘300 però, il popolo vero si fa sotto: i poveri salariati dell’arte della lana, gli operai, i tintori – e tutti gli esclusi sulle cui braccia è costruito il miracolo economico fiorentino – cercano di spodestare le classi dei mercanti. Proprio come i mercanti avevano fatto coi nobili. E’ il tumulto dei Ciompi (1378); non servirà – per il momento – a cambiare gli equilibri in campo, ma su questo palco si affaccia Salvestro de Medici, l’istigatore della rivolta. E’ lui a tener testa alla grassa borghesia fiorentina, lui ad attirare sul nome della Famiglia quella benevolenza popolare destinata a condizionare l’azione di governo. Sulla formula messa in campo con i Ciompi, si costruisce il segreto di una stirpe pronta a regnare per 300 anni: mantenersi amici del popolo, conservarne il favore. Come? Con agevolazioni fiscali e credito in quantità, senza disdegnare qualche ritocco alla vecchia costituzione comunale: quanto basta a seppellire la libertas. Senza darlo a vedere.
Un falso assassinio – A Firenze non si può essere ricchi, senza lo Stato: congiure e tradimenti sono all’ordine del giorno, solo la conquista del potere può mettere al sicuro dai colpi dell’ invidia. Ma con tutto il sangue di cui gronda la (vera) storia dei Medici, c’era proprio bisogno di assassinare anche il patriarca? La mega produzione Rai parte con un clamoroso falso storico dai toni shakespeariani: l’ omicidio del capostipite Giovanni de Bicci – Dustin Hoffman nella saga TV – con conseguente ricerca del colpevole fra i figli. In realtà il capofamiglia spira pacificamente a 69 anni, nel rimpianto di una città e di una famiglia tutta, con tanto di discorso sul letto di morte (riferito dal Cavalcanti). Giovanni, schivo e prudentissimo, è il vero fondatore della potenza economica dei Medici. E’ lui a creare la holding sulla cui fortuna prosperano nipoti e pronipoti. Amico del popolo, diventa anche banchiere del Papa: se è vero che la Chiesa condanna l’usura, la corte pontificia – maggior entità economica internazionale – ha bisogno di molti quattrini per funzionare, con tributi percepiti in tutta Europa e spese colossali a ogni cambio di pontificato. Giovanni riesce a mettere la filiale romana, i commerci e soprattutto l’arte del cambio a disposizione del Papa. Con lui – e i discendenti – ricchezza e salvezza dell’anima non sono più inconciliabili. Per tutta la vita il fondatore della dinastia mantiene la testa bassa, lontana dal potere: atteggiamento saggio in una città di furibondi individualisti che si tengono d’occhio l’un l’altro, geneticamente ostili a qualsiasi supremazia. Ecco perché quando muore, la banca ha accumulato una fortuna da 152 mila fiorini d’oro (per costruire un gran palazzo ne bastano mille). Eppure Giovanni vive senza sfoggio, rifuggendo lussi e ostentazioni. “Non vi fate segno al popolo, se non il meno che potete” raccomanda in punto di morte ai figli Cosimo e Lorenzo. Che lo prendono in parola. Almeno all’inizio.
Cosimo si getta nella mischia – Quando Cosimo – Richard Madden nella serie TV – subentra al padre, le cose cambiano. Fedele al consiglio paterno, adotta – è vero – un profilo dimesso, preferisce un mulo ad un cavallo, e quando deve rifare casa straccia un ambizioso progetto brunelleschiano per ripiegare sul solido bugnato di Michelozzo. Tuttavia non esita a buttarsi nella mischia: per tutelare la famiglia (e la fortuna accumulata), deve sporcarsi le mani e mirare al governo. Così, accortasi del crescente prestigio dell’amico del popolo, la nuova oligarchia mercantesca – antica vincitrice dei Ciompi – sferra il colpo per liberarsene, lo imprigiona, lo esilia. Non ha il coraggio di ucciderlo, ed è per lei errore fatale. Cosimo e i suoi non lo ripeteranno. Il ritorno del banchiere esiliato segna un momento decisivo, il passaggio al ‘governo forte’: se le libere istituzioni significano lotte e rivalità, il popolo non ha dubbi, ben venga la Signoria. Ma non tutti son d’accordo. Gran parte del regno mediceo sarà scandito dai periodici tentativi di arrestare l’ascesa della schiatta da parte di qualche antica famiglia, non proprio assuefatta al dolce giogo. Così come gli Albizi cercano di fermare Cosimo, i Pitti ci provano con suo figlio Piero, i Pazzi con Lorenzo il Magnifico, i Capponi con Lorenzo, duca di Urbino, gli Strozzi e poi i Pucci con Cosimo I (il duca)… Inutile dire che ogni volta è una mattanza, in particolare la congiura dei Pazzi, nel 1478, terminata con l’estinzione di un intero clan. Ma i Medici tengono duro, abilissimi nell’accendere il favore del popolo per opporsi agli oligarchi, e rimanere in sella. La libertà ha ormai fatto il suo tempo. Senza nemmeno scomodare le truppe.
Nozze senza amore – Il vero trampolino dell’ascesa sociale della famiglia fiorentina sono i matrimoni. Giovanni-Hoffman sposa Piccarda de’ Bueri, unico caso nella storia della casata in cui lui metta il nome, lei il capitale. A partire da Cosimo -Madden, i soldi ci sono, manca il lignaggio: ed ecco entrare in casa una Bardi, figlia dei principi della finanza rovinati a metà del ‘300 dai re di Francia ed Inghilterra. La rete si rafforza con la new entry successiva, Lucrezia Tornabuoni, data in moglie al figlio di Cosimo, Piero (il ‘gottoso’). La dote è esigua, ma la schiatta prestigiosa, si è battuta contro Federico Barbarossa. E così via, di nozze in nozze; dopo aver rafforzato le alleanze cittadine, i Medici allargano l’ orizzonte. Roma è dietro l’angolo, l’aggancio col Papato possibile. Quando arriva il turno dell’ingombrante Lorenzo (il futuro Magnifico), la scelta cade su una Orsini, dell’omonima stirpe principesca e papalina. Lorenzo impalma Clarice fra il dissenso dei fiorentini, perché – riferisce Machiavelli – “colui che non vuole i suoi cittadini per parenti, li vuole per servi”. Sarà un matrimonio infelice, ma che importa? Il figlio ed il nipote del Magnifico avranno il soglio di Pietro. E adesso l’Europa è dietro l’angolo. Scelte come propellente per la dinastia, generose di fianchi e di figli, le donne Medici si piegano – per lo più – al volere di una storia vissuta e raccontata al maschile. Ma non senza combattere. Lucrezia, per esempio: è talmente brava a gestire la rete clientelare, coagulare consenso, dirigere gli affari durante la lunga malattia del marito Piero, che il suocero Cosimo le farà il miglior complimento possibile all’epoca: “E’ l’unico uomo della famiglia”. Ed è Alfonsina Orsini, nuora del Magnifico, a riportare gli esiliati Medici a Firenze dopo 18 anni di manovre; lei a procacciare il ducato di Urbino per il figlio Lorenzo, facendo “ ciò che ad altra donna sarebbe impossibile, a pochi uomini facile». E che dire dell’indomita Caterina Sforza, donna d’armi e di governo, che tiene sotto il tiro dei propri uomini il Conclave del 1484, o che difende spada in pugno la rocca di Forlì umiliando il terribile Valentino? Donne che brigano, che uccidono. Se fossero uomini, sarebbero stimati scaltri e temerari. Invece passano alla Storia come ambiziose, importune. Crudeli.
L’arte come progetto di sviluppo – Con l’eccezione di Giovanni dalle Bande Nere – non a caso figlio della suddetta Caterina – i Medici non sono condottieri: la città è troppo indaffarata a fare soldi per praticare la guerra, l’esercito è tutto mercenario. Per secoli i signori di Firenze lavorano invece all’edificazione della città ideale, custode di quell’armonia che ancor oggi richiama il mondo in riva all’Arno. E’ qui, attorno a questo fiume infedele, che le case-torri si sciolgono in palazzi; che finanza e cultura s’intrecciano, producendo un miracolo. Imprenditori-mecenati, avidi di promozione di un’immagine che gli avversari vogliono rozza e spregiudicata, i Medici finanziano architetti, contrattano scultori, ingaggiano pittori, poeti, filosofi. Nato come propaganda politica, sorretto dagli immensi profitti finanziari, spinto dal senso di colpa per qualche peccatuccio di usura, il sussidio alle arti finisce per diventare modello di società. Progetto di sviluppo. Firenze è già pioniera del domani: il dogmatismo medioevale è in frantumi, dalla Cappella Brancacci, l’Adamo ed Eva di Masaccio gridano al mondo il dolore di scoprirsi Uomini, mentre il San Giorgio di Donatello si libera dell’aureola per piantarsi al centro di tutte le cose e inaugurare il Rinascimento. Cosimo e i suoi innalzano palazzi, ristrutturano quartieri; creano il più prezioso di tutti i patrimoni: il contesto, lo straordinario tessuto di piazze e case, strade e giardini che, al di là dei singoli capolavori, fa di Firenze il macrocosmo fatato che diventa. Sotto la titanica cupola del Brunelleschi, nel 1439 il pater patriae raduna le chiese d’Oriente ed Occidente, sfiorando la riunificazione e riportando in Europa il pensiero (neo)platonico gelosamente custodito a Costantinopoli. Il magico corteo di Benozzo Gozzoli narra ancor oggi – da Palazzo Medici – la gloria del Concilio di Firenze nel mondo. L’Uomo rinasce, e mentre quadri, pulpiti e porte di bronzo glorificano il Padre Celeste, non mancano di celebrare le virtù terrene dei suoi figli. Così lo scrigno di San Marco – decorato da Beato Angelico – raccoglie la prima biblioteca pubblica d’Europa, ricca di codici miniati a foglia d’oro. Qui – mentre i dipinti pagani di Botticelli adornano i muri delle ville medicee – si radunano i circoli umanistici foraggiati dal poeta-statista Lorenzo il Magnifico: qui Marsilio Ficino, Pico della Mirandola e il Poliziano si confrontano, litigano, ripescano i testi greci e latini, li traducono, sdoganando una classicità non più in opposizione al cristianesimo, ma sua avanguardia ideale. Qui filosofi e poeti danno vita ad un sodalizio culturale che spazia fra secoli e nazioni, in cui il pensiero si interroga; in cui appare per la prima volta l’uomo europeo. Un fervore intellettuale spento dalla morte di Lorenzo, prima ancora che dai roghi del Savonarola.
Una donna vi salverà – Ma se con il frate si chiude il Rinascimento fiorentino, la stirpe resta a lungo protagonista, con tre Papi, due Regine e duecento anni di Ducato. Con i duchi la Famiglia cinge la corona, abbandona l’antica sobrietà, edifica palazzi reali, ordina sfarzosi monumenti, assoggetta città ribelli creando il prospero regno di Toscana. I marmi di Michelangelo, i ritratti del Bronzino, gli affreschi del Vasari e i monumenti del Giambologna proclamano fin dentro al ‘600 la gloria della dinastia. La cultura come progetto di sviluppo mantiene vigore: con Cosimo I e il figlio Ferdinando (ultimo dei grandi), arte, artigianato ed economia tornano ad intrecciarsi per il bene dello Stato. Ecco fiorire i primi giardini botanici del mondo, innalzarsi gli Uffizi, farsi realtà la prima Accademia artistica d’Europa, prendere slancio l’Opificio delle Pietre Dure. Ma ormai la Toscana è ai margini della politica internazionale, i commerci ristagnano, e un clero arrogante e vessatorio s’impadronisce dell’amministrazione. L’Inquisizione regna sovrana, Galileo è abbandonato al suo destino. Gli ultimi regnanti sono personaggi bigotti e mediocri, quando non dissoluti. L’antico ingegno è disfatto, il cerchio si chiude tristemente: corroso dal vizio, il granduca Gian Gastone a malapena lascia il letto. Ed è qui che il guizzo di una donna – degna erede degli avi – impedisce la disfatta. Nel 1737, non potendo succedere ai fratelli alla guida del regno, Anna Maria Luisa ultima dei Medici, contratta con i nuovi sovrani Asburgo-Lorena il ‘Patto di Famiglia’: chiede ed ottiene che alla sua morte nulla dei tesori degli antenati “sia trasportato e levato fuori dalla capitale”. Che dipinti e sculture, biblioteche e gioielli di una dinastia ormai stremata, rimangano a Firenze per “conservare l’ornamento dello Stato, l’utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei forastieri”. E’ lei a salvare la città che oggi conosciamo, lei a regalare al mondo gli Uffizi e le Cappelle Medicee, la Primavera di Botticelli e il David di Donatello. Con lei i conti si pareggiano, il libro si chiude: la memoria è salva. Per entrare in un futuro senza fiction, Firenze – città feticcio – deve ora liberarsi dal cliché. E scavalcare i Medici.
Splendida sintesi. Chapeau!