“L’è tutto sbagliato, tutto da rifare”: barcolla in salita il “Museo del Ciclismo Gino Bartali”, persino la petizione on-line per sostenerlo non riesce a raggiungere le mille firme. Agonizza la memoria di Ginettaccio, legata ad un’esposizione di trofei ormai in bilico fra contenziosi e incuria. Dopo attriti di vario tipo, dopo bandi pubblici, chiusure temporanee e cause civili promosse (e perse) dai familiari per il recupero dei cimeli, da oltre un anno la gestione è passata dalle stanche mani dei volontari dell’ “Associazione Amici del Museo Gino Bartali”, alle fiacche braccia del Comune di Firenze. Un esito a lungo invocato. I cui risultati però, non convincono: solo 800 le presenze in undici mesi. Sembra mancare soprattutto l’ingrediente che spingeva su per le Dolomiti quel naso triste come una salita | quegli occhi allegri da italiano in gita: il cuore. In questa ennesima commedia all’italiana anche il popolo del web –che magari non è quello della volata – viene meno: tutti a firmare per i coralli australiani o le tigri del Bengala (obiettivi legittimi, sia chiaro), ma solo in 700 spendono il click per un piano di rilancio sempre più necessario, che scongiuri la chiusura di un deposito di trofei e lo trasformi in un vero luogo del patrimonio.
Caccia al Museo
Ponte a Ema: dov’è? La cittadina che vide nascere il campione – e che è oggi sede del Museo – si appoggia sull’orlo sud-est dell’area metropolitana fiorentina: per raggiungerla, uno slalom di 8 chilometri fra traffico, cantieri e svincoli autostradali storna i buoni propositi di molti aspiranti visitatori. Ma la vera caccia alla struttura comincia una volta sul posto: accoccolato ad un piano rialzato della statale, l’edificio quasi non si vede. Nessuna segnaletica. Una volta all’interno si capisce perché questo luogo non riesca a parlare alla città: se il ciclismo è un romanzo, il Museo si limita ad assemblarne i capitoli in ordine sparso. Manca una storia. “Forse perché le cose da dire sono tante – spiega Stefano Corazzini, guida del Comune fiorentino – Le vicende da narrare a Ponte a Ema sono addirittura tre, intrecciate fra loro: c’è quella di Bartali, c’è la storia del ciclismo in generale, e quella relativa all’evoluzione della bicicletta”. Tre ‘musei’ dunque. Troppi, per accatastarsi in un (pur luminoso) piano nobile. “Ci sono altre 50 biciclette in un vano mai aperto al pubblico, al piano di sotto – confessa Andrea Bresci, Presidente dell’Associazione degli Amici – la gente ci porta continuamente materiali, ma non sappiamo dove metterli. Sul sito ci sono 13.000 storie di atleti, ma nessuno lo amministra”. Gli eventi sono fermi al 2010.
Sotto i colpi degli Austriaci
Un edificio che non valorizza, un percorso che mostra senza narrare. La partenza da Ponte a Ema di una tappa del prossimo Giro d’Italia – Mercoledì 17 maggio – non sembra sufficiente ad invertire la rotta. Eppure i pezzi suggestivi non mancano. A cominciare da una Bianchi del primo Giro: siamo nel 1909, le montagne si scalano senza cambio e le bici sono ancora così dure da immortalare il ‘Me brusa el cul…’ del primo vincitore, il ‘gigante buono’ Luigi Ganna, intervistato al traguardo. Lunga è la strada, e piena di tornanti. Sui monti della Grande Guerra i cavalli cedono il passo alle biciclette militari: è l’epopea di Ottavio Bottecchia, operaio delle due ruote incoronato campione, ma salito in sella sul Carso come bersagliere-ciclista proprio sotto il fuoco degli Austriaci. Quando in trincea gli rubano l’amatissima bici, Bottecchia se la va a riprendere dietro le linee nemiche: la smonta, la piega e se la mette in spalla (vedi modello in mostra, con sciabola incorporata). Pedala sotto i colpi nemici, Ottavio il taciturno: perché la strada è lunga ma anche ripida, e la fatica cresce, quella che “ti fa andar forte in salita per abbreviare l’agonia” (Marco Pantani). Finché si arriva in cima, e da lì ci si può solo buttare. Come Giuliano Calore, campione del mondo di ciclismo estremo – in mostra una sua bici senza manubrio e senza freni – che a 77 anni si lancia dallo Stelvio di notte, facendosi i 48 tornanti del Passo con le sole oscillazioni del corpo. “I ciclisti son matti” (Gianni Mura).
La morte del fratello
Centinaia i pezzi raccolti a Ponte a Ema, una Legnano di Binda e una Stucchi del ’47, le maglie di Chioccioli e Bitossi, la ‘spinning’ di Moser. E in mezzo a tutto, soffocato da tutto, c’è finalmente lui, quel toscanaccio arrabbiato. Il solitario delle Alpi. Ci sono le coppe, tre maglie. C’è la bici del fratello minore Giulio, che con lui si allena contro la volontà dei genitori: sono i primi anni ’30, entrambi gareggiano per l’Aquila di Ponte a Ema. Gino lavora come aiuto meccanico nell’officina di Oscar Casamonti: è lui, il padrone, a metterlo in sella. Gli dà una vecchia bicicletta, esce con lui, e nel momento in cui si accorge che quel ragazzo non lo stacca solo per rispetto, scambia le bici, inforca il ferrovecchio del garzone e spinge l’aquilotto a prendere il volo. E così sarà. Corrono, Gino e Giulio, il maggiore è più forte, ha il fisico giusto, la testa che vince. Si allena giorno e notte. Ma pensa sia Giulio il migliore. Il padre storce il naso, questa storia delle corse non gli piace: per il Re della montagna il primo muro da scalare é il dissenso paterno. Così – ed è proprio Bartali a raccontarlo nel libro ‘Tutto sbagliato, tutto da rifare’ – all’inizio della carriera Gino si vende il primo posto nelle gare, per intascare il premio del primo e del secondo. Il gruzzolo è tale da sciogliere le riserve di babbo Torello: la pedalata diventa onesto lavoro, i due fratelli hanno via libera. Sudare e volare. Ma nel ’36 – una settimana dopo la prima vittoria di Gino al Giro d’Italia – Giulio è investito da una Balilla durante una corsa di dilettanti. Operato d’urgenza, muore senza aver ripreso conoscenza. Il fratello è sconvolto, pensa all’abbandono. Son mesi duri. Poi rimonta in sella, quasi una picca contro la vita. E’ anche nel dolore che Bartali diventa l’uomo di ferro.
L’aquila cade e si rialza
Difficile toccare il dolore in un Museo. Accanto alla bici da pista del ’36, ecco gli scarpini da corsa, oggi tirati a lucido, una volta impregnati d’acqua e di sudore. Narrano di come si diventa artisti della fatica, di come si impara a cadere e rialzarsi. Per ripartire sempre. E’ in terra fin dall’inizio, Bartali: a 20 anni finisce in prognosi riservata a Grosseto, si sveglia imprecando dopo 18 ore, e il giorno dopo è già in piedi; al primo Tour, nel ‘37 – quando è in maglia gialla e incanta la Francia – vola oltre la spalletta di un ponte, atterra fra le pietre di un torrente, si (ri)becca la polmonite, perde la maglia, il Tour, ed è costretto al ritiro, salvo ripresentarsi l’anno dopo e portar via tutto; durante il famoso Giro del ‘40 cade per colpa di un cane, rimonta in sella nonostante l’incrinatura del femore e – arrivato sulle Dolomiti – tende la mano all’(ex) gregario Coppi in bambola per i crampi, aiutandolo ad incoronarsi Re. «Io ero un carro armato, lui un purosangue – dice Bartali – ma bastava un bruscolo nell’occhio per scaraventargli il morale a terra».
Achille e Ettore
Gino e Fausto, l’atleta di bronzo e quello d’argento, Achille e Ettore: la stampa li vuole rivali, il paese pure. Bartali è l’Italia contadina, credente, devota: vince perché è una forza della natura, uno scalatore metodico, dal cuore lento e rabbioso. Ha gli dei dalla sua. Coppi è il ceto operaio, moderno, riformista: vince a dispetto di se stesso, strappandosi ad una sublime malinconia, e quando lo fa non ce n’è per nessuno. E’ solo al comando. Se l’uno scatta, l’altro si mette a ruota. Un carro armato e un purosangue. Vincono a turno, si temono, si studiano. I leggendari scontri su per le salite alimentano un dualismo (melo)drammatico di cui il ciclismo si nutre, di cui l’Italia ha bisogno. In realtà – come rivela l’epica foto della borraccia sul Galibier, esposta al Museo – i due rivali si sostengono. Sono amici. Lassù sull’infernale vetta francese, nel ’52, i due si passano da bere, e ancora oggi si discute su chi passa a chi, ma che importa? Il loro è più che rispetto: l’uno è indispensabile al mito dell’altro, sono le due facce della stessa medaglia, i due nobili figli della stesso paese povero e paesano, che sbarca il lunario, che va al lavoro in bicicletta; che baratta la rivoluzione con una vittoria al Tour. In un’intervista dopo aver annunciato il ritiro, Ginettaccio afferma: “Senza Fausto avrei vinto sicuramente di più, ma sono sicuro che la gente mi avrebbe amato di meno”.
Giusto fra i giusti
Ettore o Achille, la guerra porta via ad entrambi vita e carriera. Niente più corse, ma Bartali non molla, macina centinaia di chilometri per allenarsi fra le strade della Toscana e quelle dell’Umbria. E ne approfitta per nascondere preziosi documenti nel telaio della bicicletta: le carte della libertà per quasi mille ebrei perseguitati. Pedala, il postino della salvezza: fa parte di una rete che comprende la Curia di Firenze e il Rabbino capo della città. Viene anche fermato dalla polizia fascista nell’autunno del ‘43, ma nessuno perquisisce la bici e il campione si salva. Di questa vicenda non parla, solo molti anni dopo accenna qualcosa al figlio Andrea. Nel 2006 Ciampi gli assegna la medaglia d’oro al valor civile, nel 2013 lo Stato d’Israele lo dichiara “Giusto fra le Nazioni” – in mostra a Ponte a Ema il certificato d’onore – e la storia torna alla ribalta: quella di una straordinaria staffetta che rischia ben più della carriera per opporsi all’ingiustizia suprema. “Il bene si fa, ma non si dice – una delle frasi celebri del campione – E certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”.
Quel giorno del ‘48
Ed eccoci all’ultima bicicletta, quella di fine anni ’40, con cui Bartali si allena in strada. Ed è in strada che quasi si accende la rivolta dopo le tre pistolettate di Antonio Pallante a Togliatti, il 14 luglio del ‘48. La piazza freme. Intanto in Francia Gino arranca. Ha già 34 anni e a metà Tour sono 21 i minuti di distacco sull’astro di casa, il giovane Luison Bobet. La notte dell’attentato De Gasperi in persona butta il ‘vecchiaccio’ giù dal letto con una telefonata in cui le sorti del paese vengono appese alla sua ruota. Una ‘leggenda’ bella come un miracolo: in due giorni Bartali conquista due vette alpine, due tappe, 21 minuti. E a 10 anni di distanza dal primo trionfo, Ginettaccio l’intramontabile entra nel guinness, si porta a casa il secondo Tour. Nelle strade le manifestazioni di protesta per l’attentato si mutano in cortei di giubilo: un paese umiliato dalla guerra, si schiera, si ritrova. Attorno a quella bicicletta solitaria, l’Italia riconquista identità. Diventa comunità nazionale. Anche a questo servono i Musei: a ricostruire i nessi, e narrare come siamo diventati ciò che siamo.