La statua di Papa Giulio II era stata collocata proprio sopra il portale principale di San Petronio, praticamente sulla testa della Madonna. Quando i Bolognesi si ripresero la città, la fecero a pezzi. Storia di un restauro ma sopratutto di una chiesa nata (e vissuta) come monumento all’autonomia comunale.
Era proprio lì, incardinata sopra il portale del tempio cittadino. Addirittura più in alto della Madonna.
L’enorme statua in bronzo di papa Giulio II – estorta a Michelangelo e massacrata dai bolognesi – ha finalmente trovato una collocazione. Si sapeva che il pontefice era riuscito a costringere l’artista a cimentarsi col bronzo, un materiale non amato. E si sapeva che, dopo molte esitazioni e ancor più fatica, Michelangelo aveva fuso una colossale immagine del papa-guerriero. Ma a tutt’oggi si ignorava fin dove la vanagloria di Sua Santità si fosse spinta. Ebbene, adesso lo sappiamo: piuttosto in alto. La statua del Santo Padre fu innalzata nel 1508 al centro della facciata di San Petronio, proprio sopra la nicchia che ancor oggi raccoglie la grazia della Vergine di Jacopo della Quercia.
La chiesa più grande del mondo. La scoperta di grosse staffe metalliche incassate nel muro a reggere il pesante fardello, è stata fatta durante i lavori di ristrutturazione della facciata della Basilica. Per festeggiare il 350° compleanno della chiesa – simbolo dell’identità civica – la città si è rimboccata le maniche ed ha tirato fuori un progetto da 7 milioni di euro (ne mancano ancora 4,5), il “Phelsinae Tesaurus”, il tesoro di Bologna. Un nome preso a prestito dalle reliquie di San Petronio, che va ben al di là della rimessa a nuovo di marmi e mattoni, e che comprende convegni e ricostruzioni virtuali, mostre e lezioni accademiche, rilievi tridimensionali e concerti. Un caleidoscopio di eventi tale da abbracciare il restauro della basilica facendone fulcro e perno. Un’occasione unica di rilancio dei valori di cittadinanza, libertà e bene comune che quel monumento avevano ispirato, e che in esso ancor oggi vorrebbero specchiarsi. Una sorta di inno collettivo levato dai bolognesi alla propria storia.
Vicenda complessa, quella di San Petronio, la Grande Incompiuta, la Basilica voluta dal popolo che dopo tre secoli di lavori si stufò di pagarla e decretò che andava bene così com’era. Incompiuta, appunto.
L’editto di fondazione risale alla fine del ‘300, quando Bologna coltiva il futuro con fiducia: l’industria della seta regala ricchezza, lo Stato Pontificio – di cui la città è avamposto – ha troppe grane da risolvere e guarda altrove. San Petronio è forse l’ultimo cantiere del gotico italiano, meno verticale dei modelli d’Oltralpe, più vivibile, terreno. Sorge come canto all’autonomia comunale, e la posizione della statua che Giulio II vorrà imporre agli abitanti non è scelta a caso. Nella spinta alla realizzazione della chiesa, non c’è un’eresia da combattere, o un ordine monastico da accasare. Quella che prende forma è una vera ‘casa comune’, è il popolo a chiederla a gran voce, e a tassarsi per realizzarla. Un monumento come parte fondante dell’identità collettiva, per il quale lo Stato Pontificio non versa un soldo. La basilica dovrà affacciarsi sulla piazza cardine della vita civica, e poco importa che (quasi) tutti i lati siano già occupati dai palazzi del Governo, delle Arti, del Commercio. Rimane la zona a sud, certo non ortodossa per l’orientazione di una chiesa, che tradizionalmente vuole l’altare ad est. Ma in questa storia, la regola liturgica non ha il ruolo principale. San Petronio sorge dunque a partire dalla facciata – e non dall’abside – ed è rivolta a sud. A chiudere l’ultimo lato della vita urbana, ed abbracciarne il tessuto.
Il colpo di mano del Papa. La Basilica nasce con grandi ambizioni, che diventano grandissime al passare del tempo. Pochi anni dopo aver fracassato la famosa statua, i bolognesi approvano un’estensione al progetto originale, e sognano di innalzare la chiesa più grande del mondo, su una lunghezza di ben 224 metri. Se si pensa ai 186 metri del Vaticano, forse non sorprende lo scatto di Pio IV, un altro papa convinto di dover frenare le aspirazioni cittadine a colpi di edilizia monumentale. Così nel 1562 un nuovo fabbricato viene eretto, a soli 12 metri dalla Basilica, parallelamente alla navata principale: è l’Archiginnasio, il palazzo degli studi, sovvenzionato interamente dalle tasche del Pontefice e completato a tempo di record. Addio transetto sinistro, non c’è più spazio per l’ambizioso progetto a croce latina. Risultato: la centralità del Vaticano non è messa in discussione e San Petronio rimane la terza chiesa italiana, dietro le cattedrali di Milano e Firenze.
Rapporto ambiguo, quello col Pontefice. La storia della città è un battibecco continuo con l’ingombrante padrone di casa, che offre protezione e stabilità internazionale, ma è in continua ricerca di tributi. Col passare del tempo, le richieste si fanno più pressanti. I lavori tuttavia proseguono, in Basilica predicano santi, si accolgono principi, si incoronano imperatori. Persino due sessioni del Concilio di Trento trovano ospitalità sotto le navate petroniane. Qui le magistrature cittadine hanno un proprio scranno, qui il potere politico incontra, blandisce, persuade quello religioso. Ad un certo punto, però, i bolognesi si stufano: è il 1663, sono passati quasi trecento anni dalla posa del primo mattone e i denari non bastano più. E’ il potenziale ideale (oltre che economico) del Rinascimento ad esaurirsi. Cosi come l’avevano iniziata, i cittadini decidono che la chiesa à finita: con la sua facciata ruvida, coperta a metà. Con quei 350mila mattoni che non saranno mai rivestiti in marmo.
In centomila sul ponteggio. Oggi come allora, è ancora la città a provvedere al tempio civico. Per finanziarne i lavori di ristrutturazione – oltre al supporto di banche e fondazioni – migliaia di cittadini hanno aperto il portafoglio, donato il 5 per mille, adottato un mattone. Qualcuno addirittura un’intera cappella. E in centomila si sono arrampicati sui ponteggi del cantiere, per ammirare da vicino i capolavori della facciata e sovvenzionarne così la pulizia. Il tesoro di Bologna è nelle statue accarezzate dal pennello dei restauratori, è in quel Giuseppe d’Arimatea che appoggia Cristo giù dalla croce, nella lunetta destra, lo sguardo sbigottito, la bocca dischiusa in una smorfia di stupore; o nella Madonna di Jacopo della Quercia, ‘la più bella del 400’ a detta di Michelangelo, quella che svetta sul portale maggiore e che lo scultore fiorentino studiò a lungo durante il suo primo soggiorno in città e forse riprodusse in alcune figure della Sistina. Il tesoro di Bologna è fra i mattoni di San Petronio, ripuliti l’ultima volta 40 anni fa dai vigili del fuoco a colpi di getti d’acqua. Negli ultimi tre anni migliaia di mattoni hanno fanno toelette con alghe marine e laser, un bagno ideato dalle più recenti tecnologie, sotto la vigile cura degli esperti dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, l’eccellenza del restauro in Europa.
A marzo dunque, dalla facciata rimessa a nuovo cadrà il velo che cela i cantieri, e Bologna potrà riappropriarsi del santuario passando dalla Porta Magna, su cui svetta il capolavoro del della Quercia. Quella Vergine che solo la megalomania di Giulio II poteva pensare di sovrastare. Doveva avere un enorme braccio teso, la statua del pontefice, perché lo storico Condivi scrive che alla domanda ‘Ma a cosa serve quel braccio?’ Michelangelo rispose al Santo Padre: “Serve a benedire i vostri agnelli bolognesi, ma al contempo ad ammonirli, che, se disobbediscono, il castigo non mancherà”. In effetti il castigo ci fu, ma non nel senso previsto da Michelangelo. Destinata a sfidare i secoli, la statua fu annientata dopo soli tre anni di vita. Quando i Bentivoglio si ripresero la signoria, i cittadini corsero in piazza a tirare giù il colosso di bronzo. E tanto era il furore che il metallo fu spaccato, rifuso e venduto ad Alfonso d’Este per costruire la più grande colubrina di tutti i tempi, chiamata la ‘Giulia’ proprio in sprezzo al Giulio pontefice. Si dice che fu la Giulia a sparare sulle mura di Roma durante il ‘sacco’ dei lanzichenecchi, nel 1527. Il Papa era un altro. Ma la storia – in fondo – sempre la stessa.
Foto e testo di
Daniela Cavini