Qui erano nati all’arte e qui sono sepolti, i giovani insolenti divenuti grandi del manierismo fiorentino: da Pontormo a Franciabigio, ma anche Cellini e Sansovino. E’ la Cappella dei pittori – o Cappella di San Luca – scrigno protetto dai chioschi della SS. Annunziata. Qui, interrati nella cripta, riposano i protagonisti di una straordinaria stagione artistica, calati in nicchie lungo le pareti, su appositi sedili in muratura, alla maniera di certi monasteri. Ci sono volute le acque dell’Arno a scompigliare i resti mortali di questi immortali artisti, le cui ossa non è stato più possibile comporre dopo la piena del ‘67.
La storia della Cappella – dedicata al santo che secondo la tradizione ha tentato di dipingere un ritratto della Vergine poi miracolosamente completato – prende avvio nel 1562, quando frate Giovannangelo Montorsoli la sceglie per farne il sepolcreto suo e degli artisti bisognosi. Rivive così, grazie ad un gesto di solidarietà, l’antica Compagnia di San Luca, società di mutuo soccorso creata nel medioevo per tutelare i pittori e l’attività delle loro botteghe. Quando nasce, nella Firenze trecentesca, centinaia sono gli iscritti a questa confraternita: è un periodo in cui gli artisti sono ancora ‘artigiani’, arruolati nell’arte dei Medici e Speziali (i pittori) o in quella dei Maestri di Pietra e Legnami (gli scultori). I pittori fanno – mediamente – vita grama, non hanno sede fissa, passano dalle stanze dell’Ospedale di Santa Maria Nuova a quelle di S. Maria Novella, e in questo migrare la Compagnia perde partecipazione e vigore.
Dopo duecento anni, quando ormai sembra destinata all’estinzione, l’istituzione trova nuova linfa appunto per volontà del frate scultore allievo di Michelangelo. Montorsoli – padre dell’ordine dei Serviti e collaboratore del Buonarroti per le sculture della Sacrestia Nuova – propone di accogliere la confraternita nella sala capitolare del convento della SS. Annunziata, che fa restaurare a proprie spese. Qui intende farsi seppellire, insieme a tutti gli artisti che non abbiano i mezzi per ricevere degna sepoltura. Si comincia con un nome eccellente: il 24 maggio del 1562, festa della SS. Trinità, i resti di Pontormo vengono esumati da poco lontano, quel Chiostrino dei voti dove le spoglie del grande pittore giacciono sotto il suo capolavoro, la “Visitazione”. Quel Chiostrino che aveva visto all’opera la ‘scuola dell’Annunziata’, fucina della maniera fiorentina guidata da Andrea del Sarto, di cui Pontormo e Franciabigio erano parte. Il corpo dell’artista è calato nella cripta: è l’atto fondativo. La risorta Compagnia di San Luca trova rifugio in quella che diviene rapidamente la Cappella dei pittori. Un’occasione che fa riflettere Cosimo I, aiutato dal suo corifeo e punta di diamante dell’entourage artistico mediceo, Giorgio Vasari.
“Il momento è maturo per fondare un’istituzione che svincoli gli artisti dalle limitazioni delle rispettive arti, e ne ufficializzi il ruolo, ne teorizzi la formazione”, spiega Elena Capretti, storica dell’arte. “Certo, con la tutela di Cosimo, arriva anche la sua supervisione: la produzione artistica – continua Capretti – è un tassello fondamentale nella costruzione politica del regno”. L’avallo del principe diventa insomma essenziale per un’arte che risponda (anche) ai dettami del Concilio di Trento: e l’agognato titolo di Granduca arriverà sulla testa di Cosimo certo grazie al Papa più che all’Imperatore. Ecco spiegata la nascita – pochi mesi dopo l’inumazione di Pontormo – dell’ “Accademia delle Arti del disegno”, in cui la neo-risorta Compagnia di San Luca viene inglobata. E’ la più antica Accademia di Belle Arti del mondo, conta da subito 70 iscritti (ci insegnerà persino Galileo), si trova a capo nientemeno che lo stesso Cosimo e quel Michelangelo da trent’anni lontano da Firenze, e destinato a non tornarci mai più. La sede rimane nella Cappella dei pittori, e qui gli artisti si mettono subito all’opera per una decorazione all’altezza del nuovo status.
E’ Vincenzo Borghini, Spedalingo degli Innocenti, intellettuale di corte e grande amico di Vasari, a suggerire il programma iconografico: tre sono le arti principali – pittura, architettura e scultura – tutte egualmente figlie del disegno. Quale la più importante? Il dibattito infuria, fino a trascinarsi poco dopo davanti al sacrario di Michelangelo, in Santa Croce. Per la Cappella, la risposta è semplice: tre sono le arti, nessuna primeggia. Come nella Trinità. Ed ecco sopra l’altare principale, comparire Padre, Figlio e Spirito Santo sorretti da tre putti, ad opera dall’Allori, di Pontormo allievo prediletto. Alla sinistra dell’affresco, in una sorta di croce immaginaria, Vasari riserva a se stesso la celebrazione della pittura, immortalando San Luca nell’atto di affrescare la Madonna, mentre lei gli indica se stessa sulla tela (cioè il ritratto non riuscito al santo pittore, ma miracolosamente apparso). A destra, Santi di Tito immortala l’architettura, ritraendo il saggio Salomone intento a costruire il tempio (e non è forse saggio il Principe che costruisce lo Stato secondo regole di ragione ispirate da Dio? Cosimo gongola). La terza arte, la scultura è richiamata dai colossi che si affacciano dalle nicchie: 3 santi e profeti in ogni angolo (uno terribilmente somigliante al Granduca). Insomma, una cappella basata sulle terne, nel nome della Trinità e delle arti. Nella celebrazione del regno mediceo.
Non è così che la vediamo oggi. Ai tempi di Napoleone, un capriccioso (e pigro) vescovo mandato da Parigi pensa bene di modificare l’ingresso, così da accedervi direttamente dal proprio appartamento. La porta viene spostata, un profeta rimosso, l’altare trasferito sotto l’affresco del Vasari. A tamponare il portale soppresso, sarà aggiunta più tardi dai (rientrati) Lorena la “Sacra Conversazione” del Pontormo. Anche così, con i significati iconologici capovolti, la Cappella dei pittori rimane un simbolo, l’icona di un’epoca. Tanto che anche Rodolfo Siviero, salvatore di buona parte del nostro patrimonio dalle brame naziste, cerca qui l’ultimo riposo. E’ il 1983 e il mitico 007 dell’arte italiana viene sepolto là sotto, accanto al Montorsoli. E insieme ai ragazzacci che avevano superato il Rinascimento, ma che morirono in povertà.