“D’otto case, n’o’ fatto una”. E’ il 1450, e il ricco mercante Giovanni Rucellai chiama Leon Battista Alberti perché s’ingegni a tirar fuori un palazzo da una sfilza di caseggiati medioevali. E l’Alberti lo fa: tappa buchi, sfonda muri, trasforma otto appartamenti irregolari in una dimora patrizia. Mette l’architettura di Roma antica al servizio delle ambizioni della borghesia rinascimentale fiorentina. E s’inventa la facciata perfetta, destinata a restare negli annali: a cambiare per sempre il volto dell’edilizia privata cittadina, e non solo.
Impiantati nel popolo di San Pancrazio, i Rucellai sono stirpe magnatizia. Già a metà del XII secolo l’avo Alamanno scopre le proprietà coloranti dell’oricella, che utilizza per tingere di rosso le pezze di lana: il mondo impazzisce per quei tessuti color porpora, i commerci volano. Dalla preziosa erba e dalla sua lavorazione, la casata acquista cognome e ricchezza. A metà del ‘400, la dinastia è in piena ascesa: schierato con i Medici, Giovanni ambisce a far parte della corte personale di Cosimo il Vecchio, che sta silenziosamente conquistando Firenze. E come il pater patriae chiama Michelozzo per il palazzo di via Larga, così il Rucellai chiama l’Alberti in via della Vigna. Il momento è d’oro, investire in pietre significa dare lustro alla famiglia, bella forma alla città. Il vento degli affari soffia forte sulla vela della casata (logo disegnato da Leon Battista per l’amico banchiere), ma i Rucellai non possono permettersi di abbattere l’intero quartiere e rifondarlo. Si rivolgono dunque all’architetto perché faccia ciò che meglio gli riesce: ricucire architetture preesistenti. Creando capolavori.
Ecco perché oggi gli studenti dell’International Studies Institute (ISI) – consorzio di università statunitensi ed australiane cui è affidata la gestione del piano nobile di Palazzo Rucellai, tutt’ora di proprietà della famiglia – si aggirano per un reticolo di corridoi stretti, di stanze asimmetriche. Alberti deve unire l’esistente. Oltretutto in quegli anni lavora al trattato “De re aedificatoria”, in cui teorizza soluzioni che sperimenta proprio mentre ristruttura l’edificio: per esempio nasconde nei muri una serie di scale a chiocciola, così da permettere alla servitù di passare da un piano all’altro senza intralciare il passo ai signori. O ancora, rafforza i pavimenti sopra le logge, appoggiando le assi a una base di catene di ferro incrociate (ritrovate con grande sorpresa dei restauratori durante i lavori del 1996). Ma il colpo di genio è la facciata: Alberti guarda al Colosseo e impila gli ordini dorico, ionico e corinzio, cucendoli insieme con la lezione del Brunelleschi.
Giovanni è così soddisfatto del suo architetto, da affidargli la realizzazione dei simboli che li renderanno (entrambi) immortali, fra cui il proprio monumento funebre. In vent’anni – sempre con i soldi del Rucellai – l’Alberti regala a Firenze l’attuale facciata di Santa Maria Novella, il tempietto del Santo Sepolcro nell’ex chiesa di San Pancrazio, e la Loggia antistante al Palazzo stesso, prima negozio, poi sede della banca di famiglia. Proprio lì nel 1466, l’aggancio con i Medici si perfeziona, il sogno di Giovanni si realizza, e si festeggiano le nozze del figlio Bernardo con Nannina, sorella del Magnifico. “Vasari dirà che l’Alberti nella loggia aveva sbagliato i calcoli – racconta Stefano Baldassarri, direttore dell’ISI – e forse le tre arcate non sono perfettamente simmetriche: ma la verità è che al Vasari l’Alberti non piaceva, lo considerava un teorico puro, un sognatore”.
Oggi la Loggia – e le altre perle realizzate dall’Alberti – si affacciano dal soffitto della Sala delle Muse, affrescate in quella che è la vera apoteosi del mecenatismo della stirpe, una sorta di hit parade dei capolavori di famiglia, immortalati in pieno rococò dal pittore Giandomenico Ferretti. In mano alle Muse, lassù, anche la ‘Madonna Rucellai’ di Duccio da Boninsegna, conservata agli Uffizi. Ma di arazzi e opere d’arte quattrocentesche, niente è rimasto nel palazzo, sopratutto dopo l’assalto del 1527, quando gli antimedicei – a seguito del sacco di Roma – si danno ad incendi e ruberie. Mentre i Rucellai pagano il prezzo della loro amicizia coi Medici, Firenze recupera la libertà. Durerà poco. Un nuovo pavimento di cotto e marmo – ancora in uso – rimpiazza presto le antiche assi bruciate, segnando il cambio d’epoca, e regime. E’ il pezzo più antico: oggi la dimora di via della Vigna Nuova offre ai visitatori la sua ultima veste tardo-barocca e neoclassica, con la Sala da Ballo rimodernata nel 1752 per il matrimonio di un Rucellai con una Pazzi (sì, proprio loro, quelli della congiura) e con la Sala degli Stucchi, le cui pareti proclamano l’aggiornamento delle parentele nobili fino ai Borbone di Napoli. Non poteva mancare la Cappellina di famiglia, dove i Rucellai si sono sposati e battezzati fino agli anni ’70. “Se sappiamo tutto di questo edificio – conclude Baldassarri – è perché nel 1922 a Londra, la famiglia riesce a recuperare all’asta il diario personale di Giovanni”. In questo zibaldone il patriarca annota 30 anni di quotidianità, di eventi privati e pubblici, di spese minute e pensieri. Ed afferma di non aver mai speso soldi migliori di quelli investiti per “fare d’otto case, una”. La più elegante di tutte.