Scavavano per fare un garage, hanno trovato la fornace di Tugio di Giunta: una scoperta archeologica dal valore straordinario per la ceramica gigliata. Migliaia i pezzi emersi dalle viscere di via Romana, a pochi decine di metri dalla porta: brocche, scodelle, vasi, addirittura una formella che potrebbe essere alle origini delle ceramiche dei Della Robbia. E’ probabile che proprio qui siano nate le famose terracotte invetriate, in questa officina medioevale/rinascimentale – con tanto di camere di cottura e buche di smaltimento – affiorata casualmente nel cuore della città. Un sito capace di custodire un secolo di storia della maiolica fiorentina, raccontato dai reperti che la terra ha protetto per 600 anni, e che gli archeologi della Soprintendenza – diretti da Carlotta Cianferoni – ci stanno oggi restituendo.
Il cantiere
Si tratta nientemeno che del cantiere di produzione delle ceramiche di Tugio di Giunta, artigiano e imprenditore della fine del ‘300, titolare di famose commesse fra cui quelle dell’Ospedale di Santa Maria Nuova. I suoi pregiati orcioli sono oggi esposti nei musei più prestigiosi del pianeta, dal British di Londra al Louvre di Parigi, dal Paul Getty di Los Angeles al Melbourne, in Australia. Ne abbiamo uno anche al Bargello. “Siamo certi che si tratti proprio della bottega di Tugio – spiega Valeria d’Aquino, l’archeologa responsabile dello scavo – non solo perché i documenti d’archivio identificano chiaramente la bottega ‘nella strada maestra Romana, nel popolo di San Pier Gattolino’ , ma anche perché nello scavo abbiamo rinvenuto molti frammenti con il marchio di fabbrica, la ‘firma’ utilizzata da Tugio e dai discendenti: un asterisco a sei punte, posto alla base delle anse di boccali e orcioli”.
Il periodo storico
I frammenti ricostruiscono l’attività produttiva dell’officina lungo un arco di tempo che va dall’ultimo quarto del ‘300 alla metà del ‘400: si tratta di un vero e proprio tesoro, recuperato nelle diverse buche in cui il ceramista e i suoi operai gettavano – uno sopra l’altro – i pezzi delle infornate difettose. E non solo. “Nella camera di combustione crollata, abbiamo trovato anche il materiale relativo all’ultima infornata prima dell’abbandono – continua d’Aquino – il che ci dà un’idea abbastanza precisa della data di chiusura dell’attività, intorno al 1460” . Quello affiorato in via Romana è dunque un vero compendio di storia della maiolica fiorentina, di cui fino ad oggi esistevano solo ritrovamenti sporadici: oggi invece il contesto è completo, e carico di informazioni. Per prima cosa, è possibile ricostruire le vicende della bottega, a partire dal capostipite Tugio, inurbatosi a Firenze nella seconda metà del Trecento. In questo periodo – grazie al fervore economico sprigionato dalla fine della grande peste del 1348 – cinque ceramisti si trasferiscono a Firenze, due da Montelupo, tre da Bacchereto. Fra questi ultimi è Tugio di Giunta destinato a lasciare un segno in città, soprattutto grazie al figlio Giunta (di Tugio), il vero businessman della casata, capace di far volare le commesse. E’ lui a stringere accordi commerciali con varie istituzioni, il suo nome compare spesso come fornitore di ceramiche smaltate per la nuova spezieria dell’Ospedale di Santa Maria Nuova. Siamo nel 1430, la Storia corre: l’uomo dipinto da Masaccio o scolpito da Donatello è ormai maturo, è tempo di sperimentazioni rinascimentali, i gusti evolvono, le tecniche si perfezionano. Grazie a Giunta, la bottega si lancia in nuove esperienze produttive, il blu cobalto appare accanto ai colori più arcaici, il bruno e il verde rame. Giunta lavora alacremente, fornisce vasi farmaceutici, catini, brocche a centinaia. Le cose cambiano quando alla guida dell’officina passa la terza generazione: nessuno dei figli o nipoti riesce ad acquisire la stessa manualità, a conquistare la tecnica necessaria a continuare la produzione. La fornace viene dismessa e poi abbandonata – oggi lo sappiamo – verso il 1460.
Perchè è importante
Ma la scoperta di via Romana è fondamentale anche per altri aspetti: grazie ai numerosi attrezzi ritrovati, ai distanziatori, ai fili di ferro per il distacco dei vasi dal tornio etc., ci fornisce preziose informazioni sull’evoluzione di strumenti e tecniche di lavoro. I reperti raccontano inoltre il cruciale passaggio dalla fase produttiva arcaica a quella “di lusso”: dalle maioliche verdi e brune – divenute ormai comuni – a quelle più ricercate e costose “a zaffera”, dove il blu cobalto compare accanto agli antichi colori. E dove la neonata tecnica della “zaffera a rilievo” – in cui il blu tende a sporgere rispetto alla superficie – sembra destinata ad un futuro radioso. “Fra gli scarti – racconta Giovanni Roncaglia, della Soprintendenza Archeologica – abbiamo individuato una targa devozionale in terracotta con un ‘Cristo sorretto da un angelo’ identico a quello che Luca Della Robbia realizza nel 1440 per Santa Maria Nuova. Non posso fare a meno di chiedermi fino a che punto il lavoro di Luca, capostipite dei Della Robbia, possa essere stato influenzato, se non addirittura ispirato da quello di Giunta”. Certo il soggetto è lo stesso, e così il periodo di produzione. Ed è forse più verosimile che il grande Luca se ne andasse in giro fra una bottega artigiana e l’altra cercando ispirazione o materiali, piuttosto che il contrario. Intanto, in attesa delle analisi di laboratorio sul pezzo scoperto, l’ipotesi che la ‘zaffera a rilievo’ di Giunta sia la progenitrice delle celebri robbiane, non fa che accrescere lo stupore per una scoperta di per sé già straordinaria.
La novella del Boccaccio
“Fra i pezzi recuperati – continua Roncaglia – c’è anche un reperto in cui si riconoscono chiaramente tutti gli elementi di una novella del Boccaccio, quella di Lisabetta da Messina; si vede una testa mozzata in un vaso, su cui cresce una pianta di basilico”. Altro che repertorio iconografico ‘primitivo’ con foglie stilizzate e figure zoomorfe: i frammenti di via Romana sembrano alludere ad una bottega ben integrata nel contesto culturale fiorentino, in cui l’orciaiolo inurbato dal contado, è in grado di riprodurre le storie che tengono banco nei salotti della città, e la letteratura si fa arte visiva su manufatti pregiati. Ancora una volta, segnale di un momento magico per la Repubblica di Firenze, dove un rinnovato fervore artistico e culturale – quello dei grandi cantieri pubblici come delle commesse private – viene nutrito dai profitti finanziari di un ceto borghese sempre più fiorente. Tutto questo – e molto di più – emerge dal Rinascimento di via Romana e si deposita sul nostro oggi. Ma ora – viene da chiedersi – cosa succederà al cantiere? La fase di scavo conclusa, le buche ricoperte, è iniziata la ricerca dei finanziamenti che permettano la pulitura e il restauro del tesoro, e – perché no – magari anche una mostra. Quanto agli scavi, almeno parte della fornace potrebbe essere lasciata a vista all’interno di un condominio che voleva un garage nel cortile, e si è invece ritrovato una bottega medioevale in casa. Un’ipotesi mai del tutto escludibile quando si maneggia quel millefoglie glassato del sottosuolo fiorentino.