La casa di famiglia dove passava l’estate lo scrittore. I libri, le stoviglie e gli arredi perfetti. Che ci parlano di un’Italia e di un autore a cui non si pensa più.
VALSOLDA – Tutto è com’era. L’uomo del mondo antico, l’imperial regio ingegnere, lo zio Piero, sembra ancora appoggiato alla poltrona, nello studio. L’Ombretta sdegnosa del Missipipì continua a scendere i fatali scalini verso il lago. E la marchesa Maironi, austriacante per convinzione, sorseggia il tè nel salotto grande, quello col pavimento in cotto lombardo del ‘700. Fuori, soffia la stessa breva fredda: oggi come allora, Villa Fogazzaro Roi si stringe fra il lago e la montagna, perla ottocentesca abbarbicata alla terra e accovacciata sulla sponda italiana del lago di Lugano, scrigno di ricordi e suggestioni di un’epoca poco frequentata dalla memoria nazionale, fatta di cospirazioni, bandiere tricolori e amore di una patria ancora tutta da fare.
Qui, ospite dello zio materno, trascorreva l’estate lo scrittore vicentino Antonio Fogazzaro. Qui ha abitato il Piccolo Mondo Antico ritratto nel suo più celebre libro. A queste stanze si ispira l’omonimo film di Mario Soldati e Alberto Lattuada, del 1941, un classico del cinema italiano, con un’Alida Valli che forse non è mai stata cosi bella. E qui ha vissuto fino al 2009 l’ultimo erede di Fogazzaro e proprietario della villa, il pronipote marchese Giuseppe Roi, che dopo aver trascorso la vita a sistemare mobili, libri e vestigia dello zio, ha deciso in tempo di morte di affidare al Fondo Ambiente Italiano (FAI) la sconosciuta dimora di un letterato (quasi) dimenticato, perché l’Italia potesse finalmente conoscerli entrambi. E riscoprire cosi uno spicchio di storia che è la nostra. Da maggio ad ottobre, di sabato e solo su prenotazione, il pubblico può finalmente aggirarsi fra la darsena e il giardino, le terrazze e i salotti, per incontrare un capitolo del risorgimento lombardo custodito in una casa dove tutto parla, anche le pietre.
Aveva già provato, il marchese, ad aprire la porta ai visitatori. Ma qualcuno ne aveva approfittato per intascarsi gli occhiali d’oro di Fogazzaro, di cui rimane oggi una vuota custodia di velluto verde appoggiata alla scrivania, a perenne ricordo di un triste vizietto italico. La porta si era dunque richiusa al mondo. Ma il pensiero di cosa fare con questo teatro della memoria aveva tormentato a lungo Giuseppe Roi, che si era alla fine risolto a liquidare cospicuamente gli eredi – i sei nipoti – sciogliendoli da ogni diritto. Il patrimonio poteva cosi passare intatto a più abili mani capaci di amministrarlo e condividerlo. Ad una condizione: “Non voglio visitatori qui, solo ospiti. Voglio che tutti si sentano ospiti in questo luogo, che deve rimanere come io lo lascio”: così il testamento, e cosi è stato fatto.
Vino buono nel convento.Fiori sempre freschi sul tavolo, calici di cristallo e posate d’argento apparecchiate come se la cena bollisse in pentola,bastoni da passeggio pronti all’uso, poesie intagliate sulle porte, i militari a cavallo ritratti dei Macchiaioli al muro : la Villa conserva un repertorio inesauribile di oggetti e di piccole eppure straordinarie vicende umane. La casa vive, microcosmo elegante e romantico, riproduzione perfetta di quella zona di confine in cui alta borghesia e aristocrazia ottocentesca riuscivano a convivere fino a confondersi. Aperto sul pianoforte, uno spartito de ‘L’addio di Palamidone’, parole e musica autografe lasciate da Pietro Mascagni all’amico scrittore. In camera, il vecchio letto dello zio, riscattato dal nipote al convento dove viveva la seconda figlia di Fogazzaro, suor Maria, ed ottenuto dietro compenso di qualche lavoretto di ristrutturazione nella cappella e un po’ di buon vino, che non guasta mai, sia pure in clausura. Ma è in biblioteca che si trovano i resti di una storia di famiglia risparmiati prima dall’esercito di Radetzky, nel1848, poi dalle bombe inglesi, quasi cent’anni dopo. Fra i libri recuperati dal Roi a Vicenza, nella casa di famiglia, spicca la versione originale di ‘Miranda’, il primo poemetto che lo scrittore compone nel 1873, mentre lavora come avvocato. Il padre Mariano, industriale tessile, si è sempre opposto alla sua passione per la letteratura, costringendolo a fare studi di diritto. «Eccomi avvocato- scrive Antonio il giorno in cui supera gli esami di abilitazione – bell’affare per i miei futuri clienti!”. Ma di fronte a Miranda anche il padre capitola: “Un’opera bella, bellissima. Se questa è la tua vocazione, vai e mettila in bella copia”.
Lo schiaffo e il pugno.E cosi lui fa, regalando all’Italia la bella copia di un mondo incerto fra tradizione e rinnovamento, ma pieno di buonsenso borghese, di valori trasmessi dai padri. Un mondo contro cui si scaglia l’opera più sorprendente nascosta nella biblioteca della Villa: l’originale del manifesto del Futurismo italiano, il libro “Le Ranocchie Turchine” , firmato ed inviato nel 1909 da Marinetti e Cavacchioli “come elogio funebre” al Fogazzaro, accusato di essere “monumento nazionale della letteratura, il poeta degli imbecilli”. Eccoli, i futuristi, asserragliati sul “promontorio estremo dei secoli”, da cui si scaraventano contro il provincialismo dei sentimenti. Se Fogazzaro celebra il patriottismo risorgimentale, loro rivendicano il movimento aggressivo, lo schiaffo ed il pugno. Se l’aristocratico Franco e la borghese Luisa si amano nel matrimonio, loro ci vedono immobilità pensosa, estasi e sonno. Una marchese filo austriaca che disereda il nipote per le cattive nozze, non è arte. E quando la miseria costringe Franco all’esilio mentre la piccola Ombretta muore annegata nel lago, loro proclamano che poesia è l’amor del pericolo, il salto mortale. L’ebrezza della velocità….
E’ la fine di un mondo, piccolo e antico, e l’avvento di un altro. “Addio mia bella addio, l’armata se ne va”. E’ il Novecento che entra di prepotenza nella Storia. Povero Fogazzaro, deriso da scapigliati e futuristi, incapace di vincere il Premio Nobel per la letteratura – cui è stato più volte candidato – ed oggi anche ignorato nelle scuole. Morirà poco tempo dopo l’elogio funebre, che rimane, testardo, fra gli altri libri. Eppure il suo mondo è stato il nostro, quello di una borghesia generosa, lanciata alla testa del moto risorgimentale, ma incosciente delle disparità sociali che allignano nel paese; un mondo di affetti sani, di persone semplici, di una fede che vacilla per poi ritrovarsi. Ritratto dell’identità di un territorio che è stato anche un’epoca. E che la Villa riesce a raccontare, non come il fondale di cartone per una foto ricordo, ma come forziere di un tessuto storico restituito in tutta autenticità.
Finito nel pianto.Quando l’adorato figlio Mariano, l’unico maschio di Fogazzaro, cade nel lago all’età di otto anni, la madre si butta in acqua e riesce a metterlo in salvo. Ma non per molto. Il ragazzo sarà falciato dal tifo qualche anno dopo, proprio mentre il padre sta portando a compimento il suo più celebre libro. Che finisce nel pianto, con una frase scolpita sul fondo del cassetto della scrivania, da dove si offre ancora oggi allo sguardo degli ospiti, ruvida, tremante, intagliata nel dolore: “Mariano, Mariano mio, fuori da ogni vanità e da ogni passione, raccolgo il mio cuore in Dio e in te. Finito nel pianto, 11 agosto 1895”. Franco si arruola, ma non tornerà. Anche lo zio Piero muore, su una seggiola. E’ la fine di un mondo, l’avvento di un altro. Luisa aspetta un secondo figlio. Che vivrà nell’Italia liberata.
Daniela Cavini