Libri, libri, libri. “Specialmente pe li poveri. Voglio che si formi una pubblica libreria, soprattutto per chi non ha modo di comprare e studiare”. Vuole così il “Segretario d’Europa”, l’erudito Antonio Magliabechi, quando in punto di morte dona a Firenze la storia del sapere accumulata in una vita. Primo fra tutti, ancor prima di Anna Maria Luisa o Pietro Leopoldo, il bibliotecario della Corte medicea vuole che un tesoro privato diventi bene pubblico: sono 30.00 i volumi fra stampe e manoscritti, ammassati in ogni angolo di casa sua, in via della Scala. E sono un bel problema per gli esecutori testamentari: dove metterli? Qualcuno si ricorda dell’antico teatrino di Baldracca, lì, dietro gli Uffizi, dove il lascito magliabechiano trova casa: è il 1747, e sugli scaffali prende forma quella che duecento anni più tardi diventa la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. E che al momento del trasloco in piazza Cavalleggeri, lascia il posto alla Biblioteca degli Uffizi. Due templi del sapere per uno stesso stanzone di comici.
Non l’avrebbe mai immaginato, il Magliabechi. Orfano di padre a sette anni, abbandona la bottega di garzone-gioielliere per fame di sapere. Si butta sul latino, sull’ebraico, si costruisce nomea di intellettuale, guadagna amicizie importanti. I libri sono la sua vita: li acquista, li scambia, li riceve in dono. Per comprarli è disposto a risparmiare su tutto, non ha servitù, veste in modo trasandato, consuma pasti frugali da solo – non si sposerà mai, né avrà figli – e leggenda vuole che usi una sardella come segnalibro, mentre seduto sull’unica seggiola legge, legge, legge voracemente. “Il furore di aver libri e di ammucchiarli” lo consuma, la memoria prodigiosa e il sapere enciclopedico lo spingono in alto, conquistandogli il posto di bibliotecario dei granduchi di Toscana, che gli affidano Palatina, Laurenziana, e anche un appartamento in Palazzo Vecchio. Ma lui niente, preferisce la casa di via della Scala, dove i libri si accatastano. E tuttavia, «in quelle masse» lui sa bene «dove ogni Libricciuolo si trovi, anche se per cavarlo di dov’ è, ben spesso vi bisogna non piccola fatica». E’ proprio questo luogo a diventare punto d’incontro di editori e intellettuali: ciò che si pubblica in Europa arriva qui, all’incrocio fra via de’ Canacci e via della Scala. I carteggi del bibliotecario con letterati e scienziati di ogni paese, svelano oggi il fervore di questa “cittadella delle lettere” coltivata a fine ‘600 a Firenze, nonostante siano anni di pura involuzione culturale ed economica del Granducato.
Quando Magliabechi fa testamento, lascia la sua collezione alla città, purché se ne faccia una biblioteca pubblica. Visione lungimirante, che getta nel panico la Corte medicea: dove sistemare tutti quei libri? Ci si ricorda del teatro della Baldracca, così chiamato dal quartiere di osterie e bordelli che lo ospita, giusto dietro gli Uffizi: uno stanzone della Dogana, vicino allo scalo fluviale sull’Arno. Qui nel ‘500 si esibivano i comici della Commedia dell’Arte, mettendo alla berlina quel potere che i granduchi spiavano dalle grate di speciali balconcini. Ma il ‘600 non è tempo di satira, sotto i colpi del bigottismo imperante le compagnie si sciolgono, il teatro cade in disuso. Che farne? La corte decide: lo stanzone dei comici diventerà biblioteca, e sarà trasformato – come recita un’epigrafe tutt’ora visibile – “con miglior destino a pubblico domicilio di Erudizione e Poesia”. A Giovanbattista Foggini il compito di tirare fuori “con poca spesa” due finestroni, la scalinata, le scaffalature odierne. Passano gli anni, è il 1747 quando finalmente i libri trovano nuova collocazione: al potere ci sono adesso i Lorena, non sono i Medici a realizzare il sogno del fedele Segretario. Che però aveva visto lontano, nel suo desiderio di una “pubblica libreria a beneficio universale della città”. Col tempo infatti il patrimonio cresce, agli acquisti granducali si aggiungono i lasciti privati, le raccolte degli ordini religiosi aboliti. Alfieri, Leopardi, Foscolo, tutti passano di qui per studiare. Nel 1861, lo Stato italiano trasforma la Magliabechiana in Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e nel 1935 tutti i volumi – lievitati da 30mila a 3 milioni – traslocano nell’attuale sede di piazza Cavalleggeri. E sui vuoti scaffali dell’ex teatrino di Baldracca? Arriva la Biblioteca degli Uffizi.
“Si’, perché accanto alla Magliabechiana – spiega Claudio Di Benedetto, coordinatore della Divisione “Collezioni e Servizi” delle Gallerie – Pietro Leopoldo vuole una collezione di libri dedicata solo alle raccolte artistiche”. Altri volumi che si accumulano nei secoli, sistemati nei vicini locali della fabbrica vasariana. Un patrimonio mirato all’arte cittadina, che cresce silenziosamente ad uso di curatori ed antiquari, e che ben si incastra nei ripiani dell’antico teatrino quando la Magliabechiana – ormai Biblioteca Nazionale – prende la via dei Lungarni. Gli 80mila volumi narrano oggi le collezioni artistiche degli Uffizi, ma anche quelle di chiese e palazzi cittadini: ci sono incunaboli e cinquecentine, carteggi e fondi, la prima edizione delle Vite del Vasari e le Ricordanze autografe di Neri de Bicci. Ci sono i taccuini di viaggio di Luigi Lanzi, l’ex gesuita archeologo autore della prima vera Storia della Pittura italiana. “E c’è anche l’incredibile catalogo di Giuseppe Bianchi – continua Di Benedetto – custode delle Gallerie per 15 anni, accusato di frode e condannato a morte, ma graziato dal Granduca Leopoldo”.
Giuseppe è erede della carica, il ruolo di custode agli Uffizi si tramanda da cinque generazioni nella sua famiglia. Questo “ministro” del Principe, erudito e Maestro di pietre dure, ama profondamente il suo lavoro. Quando nella notte del 12 agosto 1768 scoppia un incendio, viene accusato di negligenza: il processo – su cui cadono non poche ombre – fa emergere accuse a suo carico per frode e danni al patrimonio. La condanna è la morte, ma il Granduca commuta la pena all’esilio perpetuo. Allontanato da Firenze, da quella Galleria che era tutta la sua vita e nella quale gli viene proibito di rimettere piede, Giuseppe Bianchi elabora dopo sei mesi uno straordinario documento intriso di nostalgia e dedizione: il disegno a memoria degli Uffizi, la riproduzione sistematica, sala per sala, di tutto quanto vi è contenuto. “Spero di ottenere perdono se si troverà qualche piccola posposizione in tale fatica – scrive nel frontespizio del catalogo – fatta tutta di immaginazione, senza libri, disegni o scritti, dopo sei mesi che sono da tali cose lontano, ed involto nelle maggiori calamità che ad un mortale addivenire possino”.